«Voglio accompagnare il pubblico per mano verso una normalità, verso un’ordinarietà che mi auguro sia sempre più prepotente», dice Pierluigi Diaco presentando la nuova stagione del suo “Io e te”. E per coerenza, si siede sulla poltrona bianca girato verso il juke boxe, accavalla la gamba sinistra, una mano in faccia, con due dita a tenere il naso e il pollice sotto il mento, e chiude gli occhi per ascoltare una canzone. Per tre o quattro minuti, una durata televisiva vicina all’eternità. Circa 200 secondi in cui il conduttore non fa assolutamente nulla, se non un vago movimento del capo, sempre a palpebre abbassate, giusto per sottolineare il suo totale coinvolgimento.
Poi il brano se dio vuole finisce e la trasmissione pomeridiana, alla sua seconda quanto incomprensibile stagione va avanti come nulla fosse, fischiettando come Stanlio e Ollio che trasportano una scala infinita. Fino a che qualcuno non lo tirerà per la giacca e gli dirà la verità amara, ovvero che “Ai confini della realtà” l’ha già fatto qualcun altro, Diaco non rinuncia al suo siparietto inarrivabile, identico a se stesso ogni giorno, dal lunedì al venerdì su Rai Uno, perché probabilmente è consapevole che sia l’unica arma di distrazione di massa per far sembrare quasi normale quanto accade prima e dopo.
Il cane Ugo viene sbaciucchiato all’inizio di puntata e trotterella per lo studio, un pappagallo di carta di nome Enzo regala il consiglio del giorno con la voce in falsetto, l’algida Katia Ricciarelli risponde alla posta del cuore e intona l’inno di Mameli con Al Bano, mentre Pierluigi trova ogni giorni modi differenti per inacidirsi senza freni contro la regia che sbaglia sempre qualcosa e non riesce a star dietro, chissà perché, alla sua irrefrenabile emozione.
Ma soprattutto piangono quasi tutti. Piange lui, ricordando Gervaso «salito in cielo» e piangono tutti i suoi ospiti, da Costanzo alla Perego, lasciandosi andare tra una confessione e l’altra, al piacere degli occhi rossi. Intanto il conduttore con la chitarra, che campeggia sempre a suo fianco con l’aria atterrita di chi sa che prima o poi verrà persino imbracciata, occupa ogni inquadratura a disposizione al suono onnipresente dell’aggettivo “bello”: «Che bello questo programma, ma che bella che sei, che bello questo collegamento, che bello che bello, ma che bel momento, che bella rubrica, un bel siparietto, un bel disegno. Ma ora linea a Katia, che bello».
E mentre si arriva un po’ provati al gran finale dedicato alle vere storie degli animali domestici che vengono doppiati per esprimersi al meglio, un pensiero maldestro si insinua: ma il ritorno alla normalità televisiva era davvero necessario?