Leggenda vuole che non ci sia mai stato nel nostro continente un luogo con una simile densità di letterari: da Paul Celan ad Aaron Appelfeld, da Rose Ausländer a Gregor von Rezzori. In una terra senza confini di lingua, fede o provenienza

Czernowitz inaugura una serie di reportage in città raccontate nella loro eredità letteraria, filosofica e artistica. Viaggi in compagnia di scrittori, pensatori, scienziati lungo i percorsi che i loro testi ci hanno lasciato. Invito a viaggiare con l'immaginazione


Una contrada in cui vivevano uomini e libri... Questa era per Paul Celan, Czernowitz. E lui ne era il più illustre figlio. Czernowitz è una città che porta una dozzina di nomi e i cui abitanti più volte hanno cambiato cittadinanza senza lasciare casa loro perché il luogo cambiava padroni, governanti, lingua ufficiale. E Celan, si sa, era un poeta sublime, scriveva versi in un tedesco in apparenza crudo, in realtà di una raffinatezza da sfidare la maestria di Franz Kafka e che comunque, parlando della Catastrofe e dei genitori assassinati in un lager, ha reso nullo il tabù dell’inenarrabile e inimmaginabile e soprattutto ha cambiato il volto della poesia tedesca.

Czernowitz, dunque, è oggi una città ucraina, dopo essere stata sovietica, prima ancora rumena e, fino alla fine della Grande Guerra (1914-1918), austro-ungarica. I suoi abitanti la consideravano “una piccola Vienna”. Sembra un’esagerazione un po’ da provinciali e poi di presunte “piccole Vienna” l’Europa del centro era piena. Però, a pensarci bene, Czernowitz, era meglio di Vienna, perché in miniatura era una metropoli come la sognavano coloro che nel corso dell’Ottocento e Novecento si sono adoperati per un’umanità senza separazioni di lingua, fede, origine sociale e dove a chiunque spettava il diritto di scegliersi perfino l’identità più intima e tormentata e dolorosa.
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Dolorosa? Sì. Ha scritto, sempre Celan (la citazione la dobbiamo ad Anna Ruchat, studiosa dell’opera del poeta): «La mano che aprirà quel mio libro avrà forse stretto la mano dell’assassino di mia madre. Ma il mio destino è questo: scrivere poesie in lingua tedesca». Le parole sono del 1946, il poeta aveva ventisei anni, era sopravvissuto al ghetto e a un campo di lavoro, e stava per lasciare il paese natio per approdare in Occidente, dove avrebbe trovato la morte, suicida a Parigi nel 1970, dopo tormentate storie d’amore e un’infatuazione intellettuale deludente per il filosofo Martin Heidegger (ma questa è un’altra storia).

Czernowitz era città dei poeti. La leggenda vuole che non ci sia mai mai stato nel nostro continente un luogo con simile densità di uomini e donne che producevano versi, facevano letteratura, convinti che un buon libro e la dedizione alla bellezza potessero salvare il mondo. Vogliamo farne un provvisorio elenco? Eccolo. Cominciamo da Aharon Appelfeld, scrittore israeliano fra i più acuti indagatori della memoria. Itsik Manger poeta yiddish, il più creativo fra tutti nell’uso di quella lingua umiliata e assassinata. Yosef Burg, l’ultimo romanziere yiddish che morì qui centenario, pochissimi anni fa. Rose Ausländer, partita per l’America e alla ricerca di amori, cambiò più volte paesi, cittadinanze, tornò nella città natale, ripartì di nuovo.
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Dopo una vita di vagabondaggi, dettò, ricoverata in una casa di cura a Dusseldorf intitolata a un’altra grande poetessa folle, ebrea di lingua tedesca ed esule, Nelly Sachs (Nobel nel 1966), le sue poesie a un editore. E quando morì si scoprì che tutto il suo patrimonio consisteva in due valigie. E ancora, Gregor von Rezzori, che in tarda età decise di vivere e morire in Toscana e Moses Rosenkranz, autore rimasto sconosciuto per decine di anni, ed Eliezer Shteynbarg che codificò le favole in yiddish e si spense povero e di stenti. Di questo luogo scrisse Karl Emil Franzos, che sognava ai tempi dell’Impero la simbiosi ebraico-tedesca, non sopportava lo yiddish (né la nobiltà polacca) e della regione parlava come di “HalbAsien” (mezza Asia), perché c’era chi questi luoghi li amava ma al contempo odiava. E l’elenco potrebbe essere lungo. Fermiamoci qui.

Abbiamo detto regione. Czernowitz è il capoluogo di Bucovina. Il nome viene dalla parola buk, faggio in lingue slave. È terra di faggi. Ma anche terra fatata. Annessa all’Impero asburgico nel Settecento, la zona era abitata da contadini ruteni (così si chiamavano gli ucraini), hutzuli (una popolazione di montanari allevatori di cavalli, poeti e cantori), ebrei hassidici seguaci di rabbini taumaturgici (qui aveva la sede la corte dello zaddik di Sadagora), rumeni, polacchi e via elencando. Nella campagna, la differenza fra sogno e realtà era relativa, se non per la povertà e la fame. La città invece ebbe uno sviluppo rapidissimo: grandi alberghi con ascensori, saloni addobbati di enormi specchi come i Palazzi imperiali di Vienna, e camere “dotate di bagni privati” come si diceva allora. Il teatro poteva contenere seicento spettatori.

Sulla Herrengasse (la via dei signori) nei caffè, celebri il Caffè Habsburg e il Caffè l’Europe, si discuteva dalla politica e dell’arte e si potevano leggere giornali e riviste di tutta l’Europa, in una dozzina di lingue. Dopo la frantumazione dell’impero, poco cambiò. Nelle scuole e negli uffici era d’obbligo la lingua rumena ma si continuò a frequentare il teatro e discutere della letteratura in altri idiomi. Un terzo della popolazione era composto da ebrei. Nel 1940 la città venne annessa all’Urss, nel 1941 riconquistata dai romeni che assieme ai tedeschi deportarono gli ebrei verso i lager di Transnistria, luogo della morte. Alla fine del conflitto mondiale, tornò il potere sovietico. Si scoprì che dei sessantamila ebrei sopravvissero cinquemila.
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Soffermiamoci sulla questione degli idiomi e sui destini delle persone. Fra gli ebrei la lingua di cultura, passaporto per il mondo, era il tedesco. Ma tutti, a Czernowitz, fin dalla nascita di lingue ne padroneggiavano almeno tre o quattro. Appelfeld, con i nonni parlava lo yiddish, con i genitoriil tedesco, a scuola il rumeno, con la balia l’ucraino. Nel 1941, quando aveva nove anni, vide la madre fucilata nel cortile di casa. Con il padre venne deportato in un lager, scappò, si unì a una banda di ladri e prostitute con cui parlava per lo più in russo. Arrivò a Gerusalemme e scrisse libri in uno stupendo ebraico dove si sentiva il suono del tedesco e una nostalgia per lo yiddish.

Manger invece, figlio di un sarto, in famiglia parlava lo yiddish, a scuola il tedesco, nella vita quotidiana il rumeno, prestissimo padroneggiò il greco e il francese (poi continuò con il polacco, l’inglese, il russo, l’ebraico). Rosenkranz scriveva in tedesco, ma in casa parlava un idioma composto da parole in yiddish, polacco, ruteno e céco. Ebreo, quando dopo la guerra vide i tedeschi deportati dal potere comunista in carri bestiame, protestò. Venne portato in Russia, trascorse dieci anni prigioniero in un Gulag nel profondo Nord. Sopravvisse. Tornò distrutto, emigrò in Germania, volle vivere solitario, lontano dal mondo a cullare il ricordo della città e dell’infanzia.

C’è un reportage, girato a fine anni Novanta in Israele. A una festa, emigrati di Czernowitz, raccontano la città. Mito e realtà si confondono, e del resto, è stato Appelfeld appunto a teorizzare la memoria come immaginazione, perché i veri ricordi sono sempre incerti. Così nel filmato si narra di un amore mai spento, di un paradiso perduto, di un luogo dove prima dell’avvento dei nazisti non ci furono pogrom e le porte, quelle metaforiche ma non solo, erano aperte perché nessuno aveva paura del vicino di casa.

La protagonista assoluta è Lea Kenig, attrice, regina di teatro dello Stato degli ebrei (su Netflix la si può vedere nel ruolo della nonna nella serie “Shtisel”). Nativa di Lodz in Polonia, arrivò per la prima volta a Czernowitz da bambina con i genitori attori di una compagnia yiddish di Vilnius (Di Vilna Troupe) famosa in tutta l’Europa. In tournée in Romania, si esibiva pure nella capitale Bucarest. Ed Eugen Ionescu raccontava di non essersi mai perso un loro spettacolo. Della prima donna di quella banda di vagabondi Miriam Orleska, Robert Musil, scrisse che era la più bella e la più sensuale attrice che abbia mai calcato i palcoscenici dai tempi della Duse. Venne assassinata in una camera a gas di Treblinka in primavera del 1943.

Storie finite male? Sì. Ma il lutto non deve velare un passato di gioia e speranza. E il ricordo, spiega Kenig, ha il sapore di miele. Mentre parla, la signora ha il volto luminoso, perché evocare quel passato riporta alla vita la memoria degli sconfitti. Memoria, non come un capitolo chiuso della storia, ma come qualcosa cui non possiamo rinunciare perché l’avvenire è anche ciò che eravamo, compresi i nostri sogni, e che vogliamo tramettere alle generazioni che ci seguono.

Poi c’è la vera Czernowitz. A primavera avevo un appuntamento con Petro Rychlo, storico della letteratura. Con lui e con un bravo poeta, Sascha Boychenko, volevo parlare di Celan in occasione del centenario della nascita e cinquantesimo anniversario della morte. La pandemia ha reso il viaggio impossibile e così ora non mi resta che guardare Rychlo nei video che ha girato in tedesco e in ucraino. Mi affido all’immaginazione e provo ammirazione per le persone che curano il centro di Letteratura Meridian, producono materiali su altri poeti (non solo Celan) e organizzano festival di poesia.

La casa dell’infanzia di Paul Pesach Antschel, così si chiamava davvero il poeta, è un appartamento in un cortile, a piano terra. Finestre basse toccano il marciapiede. Davanti un castagno e Rychlo spiega come per il bambino, oppresso da un padre autoritario come lo era anche il padre di Kafka, il mondo, quello dei sogni e quindi vero, cominciava “di là dei castagni”. Per anni come dimora di Celan veniva indicato un altro edificio, capita là dove i nomi delle città e delle strade cambiano sovente. Poi, arrivò una cugina da Israele e l’errore fu corretto. Vedo strade strette, edifici a due piani, muri color nocciola, ripide salite e discese. Aria di provincia, altro che “piccola Vienna”. Il liceo di lingua rumena frequentato dal poeta (dopo un istituto dove si insegnava pure l’ebraico) ha invece corridoi e lo scalone sontuosi, pieni di luce.

Un giorno, davanti a un professore antisemita che derideva la lingua yiddish, il ragazzo Paul, difese con coraggio quest’idioma e disse che anche il rumeno talvolta suonava ridicolo. Il professore gli diede ragione. Guardo Rychlo raccontare quell’episodio e mi ricordo che a Czernowitz nel 1908 venne convocata la prima conferenza sulla lingua yiddish. Vi parteciparono per lo più letterati e attivisti del movimento socialista. Era una sfida ai sionisti che auspicavano il ritorno all’ebraico classico e ai borghesi che volevano l’assimilazione e la lingua tedesca. I convenuti, dopo due settimane di burrascose discussioni, dichiararono lo yiddish come lingua nazionale degli ebrei. Lo fecero però non nell’ampio e bellissimo edificio stile Secessione, della Casa nazionale ebraica (da ammirare ancora le sue splendide facciate) ma in quello della Casa nazionale ucraina: stranezze della storia, e materiale per studiare l’Impero multietnico al tramonto. Celan, dice la mia guida in video, non amava lo yiddish e non aveva molta stima del collega Manger. Ma io so che da ragazzo leggeva volentieri le favole in quella lingua, raccolte da Shteynbarg.

Nel ghetto, Celan incontrò Rose Ausländer. L’incontro ebbe conseguenze notevoli sul modo di scrivere di ambedue. Lei gli trasmise le due parole chiave, “latte nero” di quel capolavoro del poeta (e del Novecento in assoluto) che è “La fuga della morte” (Die Todesfuge). Quell’espressione è una citazione di una vecchia poesia di lei. Lui le insegnò a liberarsi da certe ridondanze. Dopo la guerra lei scrisse: «La mia patria è morta/ l’hanno seppellita / nel fuoco /Io vivo / nella mia patria madre parola». Lui, in una discorso disse che la poesia era come un Meridiano: «non un luogo concreto ma una linea verissima e al contempo inesistente che indica una direzione attraverso molti territori».

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