Così viene ritratta Amsterdam su stampe e i disegni a metà del Seicento, l’epoca in cui doveva essere la New York europea. Le strade strette intorno al porto pullulavano di facchini, uomini di mare, capitani di lungo corso, notabili, mendicanti, giocatori, mercanti di ogni dove – polacchi, tedeschi, ungheresi, francesi, spagnoli, moscoviti, persiani, turchi. Accanto alla borsa dei commercianti, edificata sull’acqua del Rokin, si apriva la lunga fila delle botteghe. Il frastuono era assordante e i profumi dovevano inebriare. Tabacco, semi di senape, aringhe, miele, luppolo, grano, legno, catrame, seta, cuoio, cenere, pellicce, gioielli. Lusso e curiosità animavano quel commercio che presto non ebbe limiti: si potevano comprare e vendere anche valute, immobili, azioni, opere d’arte, palazzi, flotte intere.
Il Medioevo non era mai stato di casa in quella città così moderna, che nei suoi fondali melmosi, tra canali e banchi di sabbia, nascondeva l’enigma della sua origine. I navigatori si mutarono in mercanti in grado di affrontare rischi sempre maggiori che avevano l’abitudine di condividere. Spedizioni azzardate, imprese quasi impossibili – dalla circumnavigazione del globo fino alla rotta attraverso il Polo Nord, non ci fu canale commerciale che non venne aperto. Si pesava, si contava, si trattava. La città era un fervore di attività mercantili.
René Descartes, che dal 1929 aveva scelto le università olandesi per meditare sulla pace e sulla libertà, scrisse di Amsterdam con una certa ironia: «Tutti sono talmente concentrati sui propri profitti che potrei passarci tutta la vita senza essere notato da nessuno». E in effetti quei cittadini, indipendenti e autonomi al limite della presunzione, non ricordavano di essere mai stati né sudditi, né tanto meno servi. Non erano rimaste tracce di sovrani e di corti; anche le chiese, in fondo, erano poche.
A riprova di una città a vocazione laica, orientata alla tolleranza, ma anche molto dedita al guadagno. Onestà, efficienza, velocità: era questa la formula del miracolo che aveva reso Amsterdam una potenza marittima. Eppure non c’era mercante che non sapesse di essere stato baciato dalla sorte, o meglio, esaudito nelle sue preghiere da Dio. Ma tutta quella fortuna, così come si era rapidamente formata, d’un tratto avrebbe potuto dileguarsi. Fu ciò che avvenne nel 1636 con la bolla dei tulipani, forse la prima speculazione finanziaria documentata. Dunque occorreva essere sobri e morigerati.
Licenza e rigore, liquidità e rigidezza, apertura e introversione sono le facce alterne di una città che, sotto sotto, è costruita a metà tra argini e canali. Decisamente perciò diversa da Venezia. Perché se questa si lascia andare al mare, sedotta da quell’universo onirico e dalle sue promesse, Amsterdam è ben piantata a terra. Da lì si limita a fermare e controllare l’acqua.

Le case quasi ormeggiate lungo le rive non devono trarre in inganno. Ancora adesso si scorgono le facciate leggermente inclinate in avanti, protese le une verso le altre, come per fronteggiare insieme pioggia e intemperie. I quadri di Vermeer o di Jan Steen ritraggono una vita scissa tra pubblico e privato: l’ufficio o la bottega ampi, luminosi, aperti sulla strada, e l’intimità riservata del focolare interno, luogo di raccoglimento e convivialità, dipinto con toni caldi e soffusi.
Non stupisce che quella città così repubblicana, che si apre a semicerchio verso la distesa oceanica, fosse l’approdo dei marrani, gli ebrei convertiti a forza, molti già nuovi cristiani, in fuga da Spagna e Portogallo. Per quella generosa ospitalità Amsterdam meritò l’appellativo di «Nuova Gerusalemme» ed ebbe soprattutto in cambio un’imprevista età dell’oro. Andarono moltiplicandosi i commerci, fiorirono le arti.
Si chiamavano Isaac de Pinto, Salvatore Rodriguez, Ephraim Bueno, Abraham Aboab. I marrani erano tagliatori di diamanti, medici, rabbini, mercanti, tutti membri orgogliosi della Naçao, la nazione ebraica in esilio; parlavano portoghese, leggevano la letteratura spagnola, sapevano l’ebraico. «Benedetto tu, o Signore, che ci hai mostrato la tua meravigliosa misericordia nella città di Amsterdam, degna di lode», così recitava una berachà, una benedizione dell’epoca. In Olanda gli ebrei sefarditi avevano trovato libertà di culto. E alla metà del secolo erano già considerati l’élite ebraica d’Europa.
Ancora oggi entrare nella sinagoga portoghese, solenne e suggestiva, con le sue volte di legno a botte, illuminate da centinaia di candele, è un’esperienza unica, che almeno in parte richiama quell’atmosfera straordinaria di studio e libertà che i marrani avevano edificato. Se è possibile immaginare quel mondo è grazie agli artisti del tempo, da Romeyn de Hooghe a Jacob van Ruisdael. Oltre alle celebri incisioni degli esterni, de Hooghe raffigurò gli ebrei in preghiera e al lavoro, nella gioia e nel pianto; li ritrasse nelle scuole, in fila davanti alla sinagoga, o mentre si avviavano verso il cimitero di Ouderkerk.
Ma se de Hooghe documentò quel mondo ebraico, Rembrandt lo ricreò con il suo tocco inconfondibile. E lo esaltò. Nei personaggi dei suoi quadri, imperniati su temi tratti dall’Antico Testamento, s’indovinano volti, caratteri e fattezze degli ebrei che incontrava sull’uscio di casa. Si deve credere, però, che non fosse solo un rapporto di vicinanza. Rembrandt fu grande amico di Menasseh ben Israel, il «rabbino infelice» che, provenendo da una famiglia di nuovi cristiani di Madeira, era stato accolto con sospetto nella comunità. Entrambi condividevano una visione teologico-politica improntata al messianismo, all’idea che, anche attraverso la diaspora ebraica nel mondo, un rivolgimento politico avrebbe dischiuso una nuova età di giustizia. E, in fondo, scintille di messianismo restano, malgrado tutto, tra i canali dell’Amstel.
Proprio lì sembra quasi di vederlo – Bento, Baruch, mentre passa per le vie del quartiere ebraico, dove risuonano lingue diverse, il portoghese, il giudeo-spagnolo, l’olandese, il latino e ovviamente il leshon haqodesh, la lingua santa. Se la città di Amsterdam è legata al moderno concetto di libertà è grazie a Spinoza. Chi può dire che cosa sia davvero successo quel 27 luglio 1656, quando venne espulso dalla comunità ebraica? Certo è che il bando o cherem fu letto nella sinagoga dello Houtgracht dal consiglio composto da autorità laiche. Non si trattò di una scomunica religiosa, come a lungo si è voluto far credere. Sta anche qui il fascino esercitato dalla figura di Spinoza, dalla sua storia, dal suo pensiero. Quando decise di lasciare Amsterdam, nel 1660, si produsse una scissione irrimediabile, una tragedia intellettuale i cui effetti non si sono ancora esauriti. Spinoza fu non solo il primo ebreo secolare, ma anche il primo intellettuale della modernità secolarizzata.
Il Vlooienburg, il quartiere ebraico costruito su un’isola, può ormai solo essere immaginato. Ben poco è sopravvissuto al tempo, all’occupazione nazista e alle devastanti ristrutturazioni urbanistiche del dopoguerra. Una città è fatta di sogni, di incubi e di spettri. Biciclette abbandonate e rifugi violati.

La sera del 9 maggio 1940 Amsterdam sussultò, dopo un lungo periodo d’incredula e sonnacchiosa indifferenza. «Un caccia tedesco è sfrecciato basso sul Bosplan sparando dalle sue bocche di fuoco. Tutto il cielo è pieno di violenza», così annotò un cronista in quelle drammatiche ore. La Johan de Witt fu l’ultima nave a salpare, con poche famiglie ebraiche a bordo. Gli altri rimasero, in migliaia, sulla banchina, consegnati alle onde della disperazione. I suicidi improvvisi e innumerevoli scandirono quell’ora lugubre della città. Il tradimento – e la libreria scorrevole, quella porta fidata e sicura, spinta d’un tratto brutalmente. Per la famiglia Frank non ci fu scampo. Ma quella mansarda asfittica, dove Anne aveva trascorso gli anni amari di un’adolescenza breve, restituì il suo diario, il documento letterario assurto a emblema della Shoah.
Ma ad Amsterdam è legata anche la vita di Etty Hillesum che di quegli anni, prima di essere deportata a Westerbork, e poi ad Auschwitz, ha lasciato pagine di straordinaria intensità. Ventenne entusiasta della vita, e tuttavia incline alla depressione, dotata di profonda capacità introspettiva, eppure dispersa tra i mille rivoli dell’amore mutevole, del lavoro incerto, delle relazioni instabili, sembra trovare raccoglimento di fronte al limite che le appare ormai invalicabile. Scrive al fratello: «Non abbiamo più nessun avvenire».
Quale ingiustizia! Vorrebbe vivere ancora, e progettare la sua vita. La perdita delle libertà più concrete – tutto quello che è vietato agli ebrei: prendere il tram, passeggiare in un parco, comprare un dentifricio in farmacia – è la via per scoprire un’inedita e sconosciuta liberazione. Il che non vuol dire abbandonarsi, bensì riconoscere di essere un piccolo campo di battaglia dove hanno luogo i drammi della storia. Ritrarsi per far spazio alle vite degli altri, al mondo, a Dio. Diventare un rifugio: «Per quanto mi riguarda non ho altro da offrire». Il suo sguardo limpido affranca e redime, senza assolvere, una Amsterdam offuscata dalla violenza.