Nel mondo, dopo l’omicidio di George Floyd e le proteste targate Black Lives Matter, anche l’editoria si è messa in discussione. Ma qui ancora certi discorsi non sono arrivati. E chi ha altra origine fa ancora molta fatica
Sono una sopravvissuta. Almeno lo sono nel mondo letterario italiano. Non è stato facile essere contemporaneamente nera, musulmana, donna e scrittrice nel nostro ambiente. Ognuna delle mie identità si è nel tempo scontrata con una linea, quella che Du Bois chiamava la “linea del colore”, che ha lacerato sogni e aspettative. Quando ho cominciato a scrivere, intorno al 2003, l’Italia era un paese curioso. Ricordo che noi “mescolati” trovavamo molti spazi per esprimere la nostra creatività, le case editrici in quei nostri inizi erano molto attente.
Il best seller “Io venditore di Elefanti” di Pap Khouma, scritto a quattro mani con il giornalista Oreste Pivetta, oltre a essere stato un successo clamoroso, aveva aperto all’interno della letteratura italiana una narrazione nuova. Un libro-apripista per i migranti che volevano urlare su una pagina scritta tutto il loro furore. In quell’Italia dura, che dava pochi diritti e in cui il razzismo stava diventando sempre più ideologico, ci fu una stagione di libri densi, a tratti sperimentali, autori che usavano l’italiano pur venendo da altrove. Ricordo Salah Methnani, Kossi Komla Ebri, Christiana de Caldas Brito e Amara Lakous con il suo straordinario “Scontro di civiltà per un ascensore a piazza Vittorio”.
Poi sulla scena siamo arrivate noi figlie della migrazione. Eravamo in maggioranza donne, nate e/o cresciute qui, che l’italiano non l’avevano scelto come i nostri colleghi/e che venivano da altri paesi, ma perché l’italiano era la nostra lingua, ci ha letteralmente cullato. E con noi sono arrivati temi quali l’identità, il multilinguismo e soprattutto abbiamo cominciato tutte insieme a smuovere la storia mainstream di questo paese; abbiamo cominciato a mettere in discussione la narrazione che la nazione faceva di se stessa. Quindi, soprattutto per quanto riguarda le afrodiscendenti, questo significava lavorare sul rimosso coloniale.
Furono anni di un boom di narrazione di cui però il mondo editoriale non colse la portata. Ed è lì che tutto si è distrutto. Il fermento fu interrotto da chi ci considerava una moda effimera e non parte della nazione. Le voci “altre” non trovarono più la possibilità di pubblicare e chi ci riusciva faceva molta fatica. Era paradossale! Mentre l’immigrazione diventava un tema sempre più centrale, le voci che con quella immigrazione avevano a che fare venivano atrocemente silenziate. Così abbiamo perso molti autori/autrici per strada. Invece per chi è rimasto è stata una via crucis di dinieghi su dinieghi, seguiti da piccole vittorie e da risalite piene di ostacoli. Ma è interessante vedere quanto alcuni libri hanno resistito a questo sistema. Penso soprattutto a “Madre piccola” di Cristina Ali Farah, libro intriso di poesia bilingue, tra Somalia e Italia, che è riuscito a creare intorno a sé un cordone di lettrici/lettori fedeli.
Certo in un altro paese un libro simile avrebbe vinto i maggiori premi letterari, ma qui dove anche la pubblicazione per un migrante o figlio di migrante a volte è un miracolo, pensare ai premi è davvero quasi utopia. Ma “Madre piccola” ha creato un universo poetico degno di Toni Morrison e Salman Rushdie. Come anche un fenomeno è stata ed è ancora Gabriella Kuruvilla che era con me, Laila Wadja, Ingy Mubiayi nell’antologia long seller “Pecore nere”. Gabriella Kuruvilla mischia da sempre la sua Milano con l’India paterna, facendo uscire fuori dai mondi che abita tutte le loro contraddizioni, come nel suo ultimo romanzo “Maneggiare con cura”, edito da Morellini. Tutto con un linguaggio metropolitano. Niente da invidiare quindi a un Hanif Kureishi, ma Gabriella è italiana, e ogni suo romanzo non è stato facile pubblicarlo. Una sfida perenne con un sistema editoriale che non ha calcolato la portata nuova della sua lingua pop. Anche Gabriella e Cristina sono delle sopravvissute come me, fortunate in un mondo che ci ha lacerato. Siamo riuscite/i a fare il nostro mestiere in un clima ostile.
Ora però siamo a un bivio. Nel mondo, dopo l’omicidio di George Floyd e le proteste targate Black Lives Matter, anche l’editoria si è messa in discussione. Non solo a livello di diversità autoriale - più libri di neri, latinos, ecc - ma anche di biodiversità nella struttura editoriale, dove anche tra editor, dirigenti, curatori di collana, traduttori si cerca di creare un ambiente più misto, più inclusivo. In Italia ancora certi discorsi non sono arrivati. E chi ha altra origine fa ancora molta fatica.
Ogni tanto esce un libro nato da una felice concatenazione di pianeti o grazie all’interesse di editor sempre più cosmopoliti. Ma è ancora tutto legato alla sensibilità personale del singolo e non ad una presa di coscienza del sistema editoriale. Serve più scouting (soprattutto ora che ci sono voci giovani all’orizzonte), serve più curiosità, serve diventare davvero un’editoria transculturale dove nessun corpo è straniero. Un’editoria che ascolti e che ci proponga non solo storie altre, ma anche autori che portino nella letteratura italiana, che sia prosa o poesia, i mille mondi che li abitano. Serve decolonizzare la letteratura italiana e renderla finalmente territorio globale.