Arriva da Argentina, Uruguay e Cile un’ondata di spettacoli sul rapporto tra performance e diritti

Esiste un teatro a vocazione “scomoda”: uno spazio aperto al contraddittorio continuo, alla dialettica in cui mettere alla prova le dinamiche del vivere individuale e collettivo nei momenti di crisi. Sono “esercitazioni” di quella che potrebbe essere una “protezione civile della democrazia”, metaforici piani di emergenza anticalamità sociale e culturale. Il teatro si svela più che mai un controcanto, affidato ad artisti che si chiamano fuori da mode, stereotipi, sudditanze, militanze d’opportunità.

Per questo è interessante l’approccio ampio e strutturato che Ert-Emilia Romagna Teatro, in stretta collaborazione con l’Università di Bologna, ha avviato negli ultimi tempi, chiamando ad un confronto, fatto di pedagogia, dialoghi, spettacoli, drammaturghi e registi sudamericani. Proprio da Argentina, Uruguay e Cile arriva un’ondata di autori che si interrogano sul rapporto tra creazione e politica, tra performance e società – c’è un bel libro “Per una politica della Performance”, dello storico Marco De Marinis che fa ottimamente il punto della situazione, mentre una antologia di testi è in uscita per Luca Sossella Editore.

Spiega Claudio Longhi, direttore di Ert: «Il teatro vive fasi di fermento creativo, e non solo, in presenza di crisi politiche che lo rendono un mezzo o di eversione o di catechesi rispetto all’ordine costituito. L’instabilità su molteplici livelli e le conflittualità endemiche di un continente come il Sud America attribuiscono al teatro un’urgenza sociale e una valenza politica ben più vivide di quelle europee. E la struttura organizzativa totalmente diversa dalla nostra, incentrata sulle compagnie indipendenti, genera paradigmi produttivi importanti. Con le loro differenti esperienze e pratiche teatrali, Lola Arias, Alejandro Tantanian, Lisandro Rodríguez, Gabriel Calderón incarnano delle significative testimonianze di questo denso panorama geografico».

Così Longhi mette in scena “Il Peso del mondo nelle cose” drammaturgia di Tantanian ispirata a Alfred Döblin, e a dicembre Lora Arias debutta con “Lingua madre”– che nasce da interviste a medici, esperti in fecondazione assistita, ostetriche, avvocati, femministe, attiviste anti-aborto, genitori adottivi, madri lesbiche, migranti, adolescenti, transessuali…

Racconta Calderón: «La cosa interessante è che ciascuno di noi si confronta con la realtà, con il potere, con l’economia, con la censura, con le passioni a proprio modo. Uno degli esempi più chiari di teatro metapolitico è ancora la scena in cui Amleto usa i comici per denunciare il delitto e svegliare la coscienza del re Claudio. Qual è il problema? È che nel nostro pubblico non c’è nessun Claudio: gli spettatori conoscono già il reato, sanno già tutto. Dunque, non sono d’accordo con quanti sostengono che il teatro debba denunciare la “verità”: se vieni a conoscenza di un crimine devi andare alla polizia, non farci uno spettacolo. Allora, se siamo d’accordo che Claudio non è più nel nostro pubblico, chiediamoci chi è lo spettatore. Forse Amleto? Se così fosse, abbiamo Amleto che fa uno spettacolo per Amleto che già sa del crimine commesso. Una platea di Amleti. Allora, forse, dovremmo fare teatro nella prospettiva di Claudio: non denunciare il delitto, ma paradossalmente giustificarlo. Per dire ad Amleto che il crimine di cui parla è necessario. È rischioso, lo so. Primo perché mentiamo, secondo perché pretendiamo di essere qualcosa che non siamo, e infine perché, se ci fosse davvero un Claudio in platea, gli forniremmo idee e argomentazioni! Ma il teatro politico deve essere pericoloso: serve un punto di vista sconveniente sulla realtà».

Conclude Lisandro Rodríguez: «Sono mutati i sistemi di potere sull’individuo, la censura è cambiata. Siamo noi stessi a consentire forme di controllo più subdole. Il problema così è chiedersi perché facciamo l’arte che facciamo, perché questo teatro generalmente timido, chiuso su se stesso. Forse non c’è più bisogno di censura, proprio perché non c’è nulla di scomodo da censurare. È difficile trovare un teatro che spacchi regole e convenzioni. Ma è quel che dobbiamo fare: non per cambiare la società, ma per parlare con ogni singolo spettatore. È una micropolitica, fatta invece di azioni concrete: l’arte non cambia il mondo ma è una comunicazione essenziale. E la pandemia ha confermato che la gente non può vivere senza arte».