C'è un'altra arma nella guerra al Covid: la cannabis
Dal Canada a Israele si testano prodotti a base di marijuana da inserire nelle terapie contro il virus. Siamo andati a vedere quali sono e come funzionano
In attesa che il vaccino arrivi e sia disponibile per tutta l’umanità, anche la cannabis può venire utile nella battaglia contro il Covid-19 . «Come potenziale terapia di supporto, s’intende», precisa Aurélia De Pauw, ricercatrice e vicepresidente programmi clinici della canadese Tetra Bio-Pharma. «Qui a Ottawa, ad esempio, abbiamo accelerato lo sviluppo del Ppp003, un nostro farmaco cannabinoide sintetico che può prevenire o ridurre la cosiddetta tempesta di citochine, una reazione immunitaria potenzialmente fatale osservata nel coronavirus. In caso di trattamento precoce, potrebbe inoltre evitare l’aggravarsi del Sars-Cov2 verso l’ultimo stadio della disfunzione polmonare».
Riguardo ai progressi della sperimentazione del Ppp003, «stiamo completando i test non clinici di affidabilità, necessari a dimostrare la sicurezza di un farmaco prima di iniziare gli studi sull’uomo. Mentre a fine anno vorremmo avviare la Fase 2», dice De Pauw. Tempi troppo lunghi? «A mio parere siamo lontani dal vedere la fine del Sars-Cov-2», risponde la ricercatrice, come dire che il problema (purtroppo) durerà abbastanza per rendere utili anche i cannabinoidi di Tetra Bio-Pharma. «Inoltre, anche se le pubblicazioni scientifiche prodotte sono paragonabili a 10 anni di ricerca sull’Hiv o 100 sulla tubercolosi, tuttora non è disponibile alcun trattamento ad eccezione del Remdesivir per alcuni gruppi di pazienti», puntualizza De Pauw.
La ricercatrice è già orgogliosa del lavoro che sta facendo su queste sostanze: «A oggi sono appena 5 i farmaci approvati contenenti Thc e/o Cbd e 3 di questi sono a base di cannabinoidi sintetici. La nostra è una delle poche aziende al mondo a sviluppare medicinali da prescrizione di quest’ultimo tipo,- in un settore che deve affrontare molteplici sfide legate alla lunga storia della messa al bando della cannabis, sommate alle difficoltà nello studiare e comprendere i suoi effetti benefici sugli esseri umani».
Ma alla Tetra Bio-Pharma non sono gli unici a lavorare sull’ipotesi che i cannabinoidi possano essere utili nella lotta al virus. Sempre in Canada, un team di ricercatori ha inviato due articoli scientifici in revisione proprio sul potenziale impiego contro il Covid-19 della cannabis. Soprattutto “light”, quindi a basso potenziale psicoattivo ma ad alto contenuto di Cbd. «Abbiamo registrato possibili effetti benefici inibitori nelle recettori proteine necessarie affinché il virus entri nelle nostre cellule (Ace2 e Tmprss2). Il coronavirus avrà minori possibilità di infettarle, se riduciamo il livello di queste proteine sulla superficie cellulare. Inoltre alcune varietà di cannabis (non tutte) sarebbero eccellenti nel ridurre l’infiammazione e nel prevenire lo sviluppo della tempesta di citochine».
A parlare è Igor Kovalchuk, dottorato di ricerca in carcinoma mammario conseguito in Ucraina (suo Paese d’origine) poi approdato anche lui in Canada. Dove dal 2001 insegna all’Università di Lethbridge, cittadina nella provincia dell’Alberta, ai piedi delle Montagne Rocciose. Per condurre le loro ricerche di laboratorio, Kovalchuk e il suo team hanno impiegato principi attivi estratti direttamente da piante di cannabis auto-prodotte. «Vari ibridi, all’incirca di 400 varietà, con differenti livelli di cannabinoidi e terpenoidi», rivela il docente, «senza inizialmente prestare attenzione al profilo. Solo in seguito abbiamo adoperato principalmente quelle con Cbd dominante (fino al 15 per cento). Questo perché molti pazienti non vorrebbero assumere estratti ad elevato contenuto di Thc: non li prenderebbero regolarmente se avessero effetti psicoattivi».
I test sono stati condotti grazie a un’interessante innovazione: «Abbiamo acquistato tessuti umani ingegnerizzati stampati in 3D», spiega Kovalchuk, «che hanno tutti gli strati cellulari presenti normalmente nell’uomo. Non li abbiamo infettati direttamente con il Covid-19, in quanto l’infezione virale innesca l’infiammazione, ma abbiamo imitato quella risposta inducendola con sostanze chimiche, quali il fattore di necrosi tumorale (Tnf) e gli interferoni (Ifn)».
A oltre 10 mila chilometri di distanza dal Canada, in Israele, c’è un medico già pronto a sperimentare in ospedale contro il Covid-19 un altro farmaco a base di Cbd, l’Epidiolex, già utilizzato per l’epilessia e per questo scopo approvato sia negli Usa sia in Europa. Il medico israeliano si chiama Barak Cohen ed è l’anestesista responsabile dell’emergenza coronavirus al Tel Aviv Sourasky Medical Center, il principale complesso ospedaliero della capitale israeliana e il terzo maggiore del Paese.
«È un nuovo approccio per trattare alcuni sintomi del coronavirus, usando un componente della pianta di cannabis considerato sicuro e che non crea dipendenza», spiega Cohen. Dopo l’annuncio del Sourasky Medical Center, diverse aziende israeliane, come quelle specializzate in cannabis farmaceutica del Cannabis Innovation Center, stanno bussando alle porte degli ospedali israeliani. Nel Paese mediorientale l’emergenza Covid è riesplosa proprio nelle ultime settimane, con un boom di nuove infezioni e la decisione del governo di chiudere di nuovo il Paese per tre settimane.
Ma oltre a quella canadese e a quella israeliana, nella vicenda della cannabis come potenziale arma contro il virus c’è anche una pista italiana, che parte dal Veneto e passa da Napoli. Stiamo parlando di una sostanza che si chiama Pea ultra-micronizzata, nota in Europa con i nomi commerciali di Normast e Pelvilen. «È in particelle così piccole da riuscire ad arrivare bene su certe cellule del nostro corpo umano, come il mastocita che la natura ci ha fornito per difenderci dalle aggressioni, anche virali», dice Francesco Della Valle, presidente dell’Epitech Group, società di farmacologia biologica fondata nel 2001 con sedi operative a Saccolongo (Padova) e a Pozzuoli.
«Iniziammo a studiare questa cellula nel 1992, grazie allo straordinario suggerimento di una donna altrettanto straordinaria, Rita Levi Montalcini», racconta Della Valle. La micro-Pea svolge una grande varietà di funzioni biologiche correlate al dolore cronico e nevralgico, agendo anche nei processi infiammatori. Ed è una delle sostanze prodotte dal sistema endocannabinoide del nostro organismo, simili a quelle contenute nella cannabis (gli endocannabinoidi) visto che si legano ai medesimi recettori. «Agisce sul recettore Gpr55, un omologo dei 2 principali sui quali operano i cannabinoidi (Cb1 e Cb2), attivati anche dal Thc, il principale ingrediente psicoattivo della cannabis», chiarisce da Philadelphia (Stati Uniti) il medico Raza Bokhari, amministratore delegato della Fsd Pharma.
Questa giovane azienda, in cui già nel logo è presente la foglia di marijuana, è l’emblema dell’intero nuovo business nordamericano su questa pianta millenaria. Quartier generale a Toronto (Canada) e braccio operativo in Pennsylvania (Usa), la Fsd Pharma inizia a coltivare a livello industriale cannabis terapeutica da fornire ai pazienti canadesi e del resto del mondo (Italia compresa). Forte di quel successo, raccoglie capitali quotandosi in Borsa e volgendo poi il suo sguardo sul settore farmaceutico che realizza composti simili. «All’inizio del 2019 abbiamo acquisito la Prismic Pharmaceuticals, ottenendo così anche la licenza mondiale (tranne che in Italia e Spagna) della Pea ultra-micronizzata, finora venduta dall’italiana Epitech a centinaia di migliaia di pazienti». Riguardo all’uso che s’intende farne, l’amministratore delegato della Fsd Pharma ha fissato il seguente cronoprogramma: «Entro la fine del 2020, al massimo per l’inizio del 2021, andremo di fronte alla Food and Drugs Administration per iniziare a poter esaminare il valore e l’impatto di una nostra versione ultra-micronizzata della Pea in alcune patologie. Se otterremo sufficienti dati vorrei accedere la Fase 3 e a quella successiva della commercializzazione».
E l’obiettivo ultimo del loro studio, come rivela la richiesta presentata all’agenzia del farmaco Usa che ha fatto subito schizzare il titolo in Borsa, è testare la micro-Pea contro il Covid-19. Peraltro, come rivela De Valle, con un protocollo messo a punto in Campania: «A un certo punto i nostri amici americani ce ne hanno chiesto uno e noi gli abbiamo inviato quello realizzato con la città di Avellino, il cui nosocomio, quando mesi fa il sistema sanitario italiano venne messo a dura prova, ci propose di avviare una sperimentazione con la micro-Pea. Questa cittadina campana ha avuto così la possibilità e il successo di giocarsi il proprio protocollo con l’agenzia del farmaco statunitense». Sempre secondo il presidente di Epitech, anche la Fda canadese sarebbe già all’opera, in quanto «ha ottenuto l’autorizzazione a verificare i nostri dati in un centro di ricerca australiano che sembra molto qualificato su questo».
Sabatino Maione, docente di farmacologia alla Seconda università degli studi di Napoli, nonché ricercatore e autore di oltre un centinaio di pubblicazioni scientifiche (decine delle quali proprio sulle sostanze psicoattive) ci tiene a chiarire che «la Pea non curerà il Covid-19, ma può essere un adiuvante, qualcosa che spinge il sistema immunitario a prepararsi e proteggersi. Il tutto attraverso un endofarmaco sicuro, poiché basato su una sostanza naturale che noi stessi produciamo».
Secondo il docente partenopeo, «tutte le patologie complesse, ma anche solo un’infezione batterica importante, non si risolvono con una sola molecola, ma con un cocktail di farmaci: dalla semplice vitamina all’antibiotico più specifico per quell’agente patogeno. Quindi anche per il Covid-19 dobbiamo avere un armamentario variegato. Mentre aspettiamo il vaccino, proviamo con i farmaci già disponibili, che sappiamo essere sicuri e di cui conosciamo il profilo». Sulla base di questo ragionamento, a suo dire, «anche il Cbd potrebbe essere un ottimo candidato: è una molecola abbastanza sicura e tollerata, in grado di mettere a riposo le cellule riducendo la richiesta di ossigeno e potenziando il rilascio di un trasmettitore della funzione inibitoria, inibitore (l’adenosina)». Quanto basta, insomma, per aiutare. O almeno così si spera, in attesa che il virus venga sconfitto.