La società letteraria sarà pure una giostra, ma la letteratura non è una competizione né una gara al massacro

Pochi ricorderanno il film di Sydney Pollack “Non si uccidono così anche i cavalli?” (1969) con Jane Fonda (Gloria, che si gioca l’ultima carta della propria esistenza) e Michael Sarrazin (Robert, che vaga senza meta). Film tratto dal romanzo omonimo di Horace McCoy, capostipite dell’hard boiled (poliziesco).

Molo di Santa Monica, California. Primi anni ’30. Grande depressione. Una delle tante maratone di ballo in cui coppie di disperati vanno avanti per giorni. Competono fino a massacrarsi. In palio, un premio in denaro che dovrebbe cambiar loro la vita ma che di fatto è una truffa. Nell’immediato, la possibilità di trangugiare cibo tra una gara e l’altra, avere un tetto sotto cui dormire quel poco che è consentito ammassati come bestie, e inseguire un sogno: la speranza di non affogare nell’emarginazione e nella miseria. Grande artefice di questa truffa addobbata con vistose stelle e strisce: l’impresario Rocky. Un ammaliatore che conosce la durezza della vita e i punti deboli della gente, di chi assiste come di chi gareggia. Il finale è tra i più squarcianti: Robert con i suoi occhi azzurri da ragazzino fuori dalla sala con Gloria che ha capito l’imbroglio della competizione e non ci sta più.


Scrosciare di onde. Robert guarda l’oceano: «Una volta mi piaceva guardare il mare, camminando o seduto ad ascoltarlo. Adesso non mi importa se non lo vedo più».
Gloria non guarda niente. È dura ma di quella durezza che cerca di non darla vinta alla fragilità: «Il mondo forse è fatto tutto così, come il cinema. Si sono divisi la torta prima del tuo arrivo».
«Lo so e ti capisco. Accidenti se ti capisco. Cosa farai adesso?»
«Davvero?» C’è un soprassalto nella voce di Gloria dinanzi a quell’inaspettata comprensione.
«Cosa farai allora?»
«Me ne vado da questa maledetta giostra. Sono così nauseata di tutta questa storia».
«Quale storia?»
«La vita. E non darmi lezioni di ottimismo».
«Non ne avevo intenzione».
«E allora perché mi guardi in quel modo?»
«Ma... niente. Volevo solo vederti in viso».
«Beh. Guarda pure. Non perderti il finale».
Gloria estrae la pistola dalla borsetta. Se la punta contro, ma è come se fossimo noi a farlo, perché guardiamo la pistola con i suoi occhi. «Aiutami. Ti prego. Ti prego», dice faticando a trattenere le lacrime.
Gli occhi di Robert sgranati e bambini si fanno adulti come chi all’improvviso è chiamato a un compito cui non può sottrarsi nei confronti del dolore, di un’esistenza irrimediabilmente azzoppata, come il bellissimo cavallo della sua infanzia che si spezza una zampa correndo nei campi e scalcia finché il padre non lo finisce con una fucilata.
Robert prende la pistola. Guarda Gloria. «Dimmi quando».
Lei fissa il vuoto. «Sono pronta».
Lui le punta la pistola alla testa. Ma si vede solo la mano che la impugna. Il viso inquadrato è quello di Gloria con la pistola puntata alla tempia. L’esito di un’esistenza puntualmente tradita nelle sue speranze.
In un alternarsi di inquadrature che isolano i personaggi, lui la guarda. «Adesso?»
Lei continua a fissare il vuoto. «Adesso».
Lui chiude gli occhi. Spara.


Lei cade, e quando cade è in quel campo giallo dove Robert bambino correva col suo cavallo. È dentro il passato spensierato e vitale dell’infanzia che si spalanca alla vita.
Poi si torna su di lei riversa a terra nello squallore del molo. «Perché l’hai fatto, figliolo?» chiede il poliziotto che porta via Robert come un automa.
«Me lo ha chiesto lei».
«E tu non dici mai di no», è il commento sarcastico.
Con i suoi occhi innocenti e sgranati, Robert guarda davanti a sé: «Anche i cavalli li finiscono, no?»
Uno sparo, forse il ricordo del fucile del padre, forse la pistola usata nella gara per dare avvio a una nuova gara. Buio. Si torna alla maratona implacabile. Le coppie stremate si reggono a vicenda. «La danza del destino, ma quanto potranno resistere... Un bell’applauso, forza!» dice la voce squillante e cinica di Rocky. Applauso. Suono di giostra.


La società letteraria che guida le danze di quel che è rilevante o meno, tra riti e competizioni spettacolari sarà pure una giostra, ma la letteratura non è né una giostra né una competizione. Non contempla gare, perché ogni libro si misura con un certo immaginario in un preciso contesto storico e culturale. Può essere un buon libro o un libro mediocre, ma comunque incomparabile. Né la letteratura si lascia rinchiudere entro steccati ad uso di chi ha bisogno di sistematizzarla. È semmai, come in questo caso, saper dare carne e sangue alla giostra, alla sconfitta insita in una gara truccata, al cinismo di ogni competizione spettacolare giocata sulla pelle di chi ci crede: pubblico che applaude e gareggianti che ballano sino allo sfinimento per bisogno o per un briciolo di celebrità.

 

La letteratura è saper trovare parole, gesti, circostanze in cui alla fine i “falliti” non possono che essere tutti dentro una Depressione in cui spadroneggiano gli speculatori come Rocky capaci di far splendere monete false, di piegare al proprio interesse chiunque partecipi allo spettacolo grondante retorica. Ma noi che guardiamo o leggiamo quelle scene esatte nella scansione di battute, gesti, psicologie, fragilità, affetti, sogni, nella precisione dei contesti che hanno il potere dell’universalità, siamo Robert e Gloria, il vecchio marinaio Kline che muore d’infarto sulla pista messo via in quattro e quattr’otto. Siamo la ragazza incinta Ruby con il marito James che vivono passando da un treno merci all’altro. Siamo quel pubblico ignaro. E infine stiamo con la pistola puntata alla tempia. Ci salviamo proprio perché muore Gloria al posto nostro mentre sentiamo quanto quelle esistenze ci riguardino.


In Italia oggi ci sono scrittori e scrittrici che sanno far risuonare la loro voce come scandagli ben oltre logiche da acquario nazionale. Poco importa se vincano i Premi dei Premi. Anzi possono benissimo esserne esclusi, ma trovare il proprio pubblico altrove, ad esempio in Germania, come accaduto a Francesca Melandri con “Il sangue giusto”, che ha anticipato il dibattito internazionale sul post coloniale, il modo di concepire se stessi e chi è stato considerato per secoli l’effetto collaterale delle sorti magnifiche e progressive dell’Occidente colonizzatore.


In un tempo di esistenze sempre più in dialogo o in conflitto tra loro, parlare di letteratura italiana come fosse un vino in purezza è una miopia. La letteratura ha lingue madri o acquisite in cui esprimersi. Ogni autore o autrice ha riferimenti, sensibilità, bagagli culturali e di esperienza insofferenti di confini territoriali, tradizioni letterarie nazionali, generi. Mettersi a gareggiare con il mondo è fallimentare e insensato. Meglio riconoscersi come parte di un’universalità nella lingua che è più propria, da scandagliatori e scandagliatrici dell’esistenza insieme agli altri. Più alleati avrà un’idea di letteratura ariosa più saremo tutti all’altezza di questo tempo. Il resto è una bolla artificiale in cui si muore d’asfissia o con una pistola puntata alla tempia.