Un film tutto girato dentro una vecchia prigione in via di chiusura per raccontare non solo come sono le carceri ma come potrebbero essere. Guardando non tanto ai drammi dell’attualità quanto alla necessità, sempre più urgente, di uscire dalla logica dominante in nome di una giustizia riparativa e non punitiva, come vuole la Costituzione. È l’appassionante “Ariaferma” di Leonardo Di Costanzo, già regista degli straordinari “L’intervallo” e “L’intrusa”, dal 14 ottobre in sala con Vision dopo essere stato applaudito a Venezia dove era (chissà perché) fuori concorso.
Da sempre attento ai temi della segregazione e dell’abuso, questo napoletano che viene dal documentario (e non se ne dimentica) qui lavora per la prima volta anche con attori professionisti, e che attori. Il capo delle guardie è Toni Servillo, il suo antagonista Silvio Orlando, boss rispettato e temuto benché occhialuto e piccoletto («In un primo tempo avrebbe dovuto essere il contrario, ma fare uscire entrambi dai rispettivi cliché era molto più interessante, anche per Eduardo l’attore deve sempre stare un po’ scomodo», dice il regista). A questi vanno aggiunti Fabrizio Ferracane tra le guardie e Roberto De Francesco. Più Salvatore Striano, vero attore ma anche ex-detenuto, uno dei dodici “ospiti” costretti a restare ancora una settimana dentro questo immaginario carcere in dismissione. Con grande inquietudine degli agenti di custodia, che essendo in pochi temono violenze e rivolte. Anche se il film, prodotto ancora una volta da Tempesta di Carlo Cresto-Dina, evita i passaggi obbligati del genere per poggiare su questo microcosmo uno sguardo venato di speranza.
«All’origine del film ci sono sollecitazioni diverse», racconta Di Costanzo: «Fondamentali sono state le visite a una serie di carceri: Poggioreale, San Vittore, altri piccoli istituti al Nord. Ancor prima c’era stato l’incontro con figure decisive in questo campo, da Lucia Castellano, colei che ha creato il carcere modello di Bollate, a Luigi Pagano, ex-direttore dell’Asinara o di istituti di massima sicurezza come Badu ’e Carros. Per non parlare di Mauro Palma, garante dei diritti delle persone private della libertà. Figure illuminate, portatrici di riflessioni altissime sui concetti di colpa, punizione, rieducazione. Nel Nordeuropa va affermandosi l’idea di una giustizia riparativa, attenta alla rieducazione del condannato. Da noi purtroppo continua a prevalere la logica punitiva, anche se tra i detenuti di Bollate, che lavorano all’esterno e in carcere vanno solo a dormire, i recidivi sono il 2 per cento mentre nelle carceri tradizionali siamo al 60-70 per cento».
Il bagaglio più prezioso per “Ariaferma” viene però da tutti gli educatori, i detenuti, gli agenti di custodia incontrati da Di Costanzo e dai suoi due cosceneggiatori, Bruno Oliviero e Valia Santella. Preziosi non solo per dare spessore e verità ai personaggi del film, ma per evitare tanto i cliché del cinema carcerario quanto la strada del realismo a tutti i costi, che per il regista era una trappola non meno insidiosa.
«Dovevamo evitare che lo spettatore stesse sempre lì a chiedersi ma com’è possibile, è vero o non è vero? Di qui nasce l’idea di lavorare sulla sospensione», ricorda Di Costanzo. «In un carcere che si sta svuotando, con pochi detenuti e poche guardie, l’apparato repressivo viene un po’ meno. Le regole, gli orari, tutto si allenta e il carcere appare nella sua essenza, sottratto ai riti quotidiani». È il lato Fortezza Bastiani di questa prigione immaginaria, che il film costruisce trasferendo tra le montagne gli ambienti ottocenteschi del carcere di San Sebastiano, un istituto che nella realtà si trova al centro di Sassari.
«Trovare il luogo giusto era fondamentale. In un primo tempo avevamo pensato alle Nuove di Torino, bellissime anche se di una bellezza orribile, ma logorate dai tanti film che vi sono stati girati. Poi ho scoperto che il sistema carcerario in Sardegna per anni è stato un po’ come la Fiat. Non a caso fino a pochi anni fa la maggior parte degli agenti di custodia erano sardi o calabresi». Quello delle guardie carcerarie è del resto uno dei nodi primari di “Ariaferma”. Non solo perché il film cerca «un punto di vista centrale, intermedio, né tra gli agenti né tra i detenuti». Ma perché in un sistema come quello attuale il loro ruolo, il loro potere, le loro frustrazioni, restano l’anello fondamentale (e tra gli attori, oltre a diversi ex-detenuti, non mancano anche veri agenti di custodia).
«I sopralluoghi nelle carceri sono stati decisivi non solo per captare qualcosa di quella quotidianità ma per dialogare con gli agenti, che tendono a proporsi come corpo, non come persone, dunque sono particolarmente chiusi», ricorda Valia Santella. «Secondo il dettato costituzionale le carceri devono reinserire, non punire, ma oggi la logica punitiva domina. Su questo sistema si innestano ricatti, bullismo, violenze. Così il corpo di polizia carceraria finisce per far parte del meccanismo punitivo. Se il detenuto viene infantilizzato, sedato, deprivato della sua identità, l’agente in qualche modo entra in quella logica e fa il padre padrone che magari molla il ceffone perché un ceffone parla più di tante parole. Ecco: il film, all’opposto, racconta proprio questo. Come far cadere ruoli e istituzioni per creare una zona di umanità».
Aggiunge Di Costanzo: «Gli agenti non hanno nessuna formazione specifica, fanno una vita durissima e si sentono esclusi da ogni progetto di riforma, eternamente umiliati e offesi. Dunque quando capita usano le maniere forti, molto più spesso di quanto si creda». Se gli orrori di Santa Maria Capua Vetere sono venuti alla luce, insomma, chissà quanti altri restano dietro le mura. Tutto questo però in “Ariaferma” non c’è, se non come un remoto orizzonte. Di Costanzo, i suoi sceneggiatori, i suoi attori, non lavorano sulla situazione ma sui personaggi. Non è la trama, il “plot” caro agli americani, a mandare avanti il film, sono i protagonisti. E non per il loro ruolo prefissato ma per il loro potenziale.
«Il cinema spesso dimentica di mettere in un personaggio tutte le sue possibilità non realizzate», ricorda Bruno Oliviero, regista in proprio di “Cattività”, documentario su un gruppo di detenute di un carcere di massima sicurezza che allestiscono uno spettacolo di teatro partecipato dirette da Mimmo Sorrentino, altro testo decisivo nella creazione di “Ariaferma”. «Eppure ognuno di noi è fatto di cose realizzate e occasioni mancate. Per noi scrivere il film significa trovare i personaggi e lasciarli agire, farci guidare. La realtà non basta. La realtà dev’essere l’occasione per esprimere parti inaspettate della loro interiorità».
Per questo “Ariaferma” è così toccante. Ed era decisivo, ricorda il regista, classe 1958, avere un cast omogeneo. «Silvio Orlando e Toni Servillo, oltre a essere due immensi attori, appartengono alla mia stessa generazione. Servillo lo conosco da quando eravamo giovanissimi e lui dirigeva il teatro Studio di Caserta. Ma la cosa davvero importante è che tutti avevamo 18-20 anni quando c’è stata la riforma carceraria, o la chiusura dei manicomi. Abbiamo lo stesso linguaggio, la stessa consapevolezza politica e sociale, le stesse preoccupazioni. I due giorni di lettura fatti insieme, studiandoci a vicenda, quando ho scambiato le parti, sono stati indimenticabili. Li avessi ripresi, avrei un documentario sull’arte dell’attore inestimabile».