Giudici abbandonati da tutti. Capibastone ispirati dal “Gattopardo”. Uniti nel disegnare una situazione ineluttabile. Come spiega Morreale in un saggio che va dalla “Piovra” a Pif. Dal nuovo blog de L’Espresso su mafia, antimafia e dintorni

Per una volta inizio con l’editore, in questo caso Donzelli: per esprimere apprezzamento e gratitudine per aver realizzato con il libro di Emiliano Morreale “La mafia immaginaria” una ideale trilogia con “La storia della mafia” di Salvatore Lupo e “Mafie vecchie, mafie nuove” di Rocco Sciarrone. In queste opere la mafia (e l’antimafia) viene analizzata secondo tre diverse prospettive, quella storica, quella sociologica e, ora, quella cinematografica.

 

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Quando in libreria ho iniziato a sfogliare “La mafia immaginaria”, ho subito pensato: finalmente! A fronte di numerose pubblicazioni sul tema, il rapporto dell’arte cinematografica con la mafia è stato argomento marginale. Adesso, con questo libro, tanto desiderato e invocato e atteso quanto utile, viene offerta una visione d’insieme su “settant’anni di Cosa Nostra al cinema” (è il sottotitolo), fiction incluse.

Il cinema con la sua grande potenza comunicativa favorisce una certa rappresentazione della mafia destinata a divenire senso comune, influenzando la percezione del fenomeno in ampi strati di popolazione. Una forza naturalmente incommensurabile rispetto ai libri. A partire dall’auto-rappresentazione degli stessi mafiosi.

Numerosi collaboratori di giustizia hanno raccontato come abbiano subito il fascino del cinema: a proposito del Padrino, scrive Morreale, e dell’«influenza del film nell’auto-rappresentazione di Cosa Nostra. Non si contano le storie di boss che, dopo il film, ripetevano mosse e atteggiamenti di Marlon Brando» (p. 158). A Tommaso Buscetta «una notte, in sogno» gli appare Falcone nelle vesti di Guido Schiavi, il pretore interpretato da Massimo Girotti “In nome della legge”, e, come lui, «era la calma, la forza tranquilla della giustizia che lui rappresentava».

Il film, continua Buscetta, si conclude con la sottomissione del capomafia alla giustizia: «La storia mi era piaciuta molto”», nonostante le critiche di altri mafiosi, perché «il comportamento di Passalacqua [il boss] era indegno di un uomo d’onore» (il film piace a Buscetta perché la mafia rappresentata coincide con l’idea di mafia del pentito, un’idea solo da cinema, per nulla corrispondente alla realtà).

Morreale è particolarmente efficace nell’opera di decodificazione e di demistificazione di una parte della produzione filmica. Il problema decisivo è che la mafia come oggetto mediale condiziona l’approccio e può rendere problematica e parziale la stessa conoscenza del fenomeno, con evidenti ricadute nell’azione di contrasto. In questo il libro non è solo un pregiato prodotto accademico, ma offre una visione che va ben oltre il prodotto cinematografico, una prospettiva politica che, attraverso la critica, mette in discussione gli stessi modi di combattere le mafie.

Il cinema è specchio della realtà e allo stesso tempo è deformazione della realtà. Solo l’approccio critico dirada le nebbie. “La mafia immaginaria” suscita nel lettore una speciale sensazione: leggere le 311 pagine del libro è come attraversare dimensioni conoscitive diverse: c’è l’analisi rigorosa di film e serie tv; ma tutto ciò non è chiuso in un recinto autoreferenziale; si passa con naturalezza, anzi si viene sollecitati a farlo, alla dimensione della politica, della cultura, degli stessi fatti giudiziari. Insomma è un libro “non recintato”, aperto a ogni tipo di incursione, dal cinema ai fatti reali e viceversa.

Ad esempio, si prenda il tema sollevato a suo tempo da Sciascia nel famoso articolo sui “professionisti”, quello di un eccesso dei riti e delle cerimonie dell’antimafia. Morreale, scrivendo di film, non usa giri di parole. Prendendo spunto da Ciprì e Maresco mette il dito nella piaga: «Il problema non è più l’assenza di informazioni ma l’eccesso di rappresentazioni», per concludere: «La denuncia non basta più: raccontare seriamente le mafie, oggi, implica rimettersi in discussione in quanto produttori di storie e di immagini, spiazzare gli spettatori rispetto a narrazioni evasive e rassicuranti» (p. 17).

Nient’altro che le “profetiche” intuizioni di Leonardo Sciascia, quando scrivendo del “Mafioso” di Lattuada (1962), veniva assalito dal «dubbio se il continuare a parlarne non finirà col rendere alla mafia quell’utile stesso che prima le rendeva il silenzio» (p. 68). Per noi, resta aperto il problema, noi impegnati nel movimento antimafia, di “rimetterci in discussione”. Non è vero che l’alternativa è sempre tra silenzio e denuncia, anzi, come alcuni esempi recenti dimostrano quest’ultima può ridursi ad acqua fresca e, quindi, legittimare ulteriormente le mafie.

Un altro esempio di “incursione” è la puntuale analisi del film “La trattativa” di Sabina Guzzanti che dentro “una Grande Teoria” mette insieme le ambiguità di organi dello Stato, le stragi del 1992-93 e la nascita di Forza Italia. Il film «utilizza la trattativa per spiegare tutto, cerca un disegno univoco in una materia irriducibilmente opaca»; di conseguenza, «non solo la politica viene spiegata attraverso i fenomeni criminali, ma inversamente i fenomeni criminali sono essenzialmente visti in ottica politica; l’economia e la società rimangono fuori dal circuito» (p. 262). Una prospettiva “auto-consolatoria” che riduce la vittoria di Forza Italia a una specie di golpe e non a fattori politici, sociali, culturali.

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Un’impostazione che riappare nel film di PIF “In guerra per amore”: l’evento storico è lo sbarco degli Alleati in Sicilia utilizzato per stabilire una linea di continuità con la storia presente («rivelare verità che si riverberano sull’oggi») come a segnare «una sorta di peccato originale». Una filosofia della storia semplicistica con l’effetto di una «autoassoluzione della cultura e dello spettacolo di sinistra» (p. 278).

Di un libro così ricco di analisi, riferimenti, suggestioni, è impossibile offrire una sintesi. È un bel libro, da leggere e da “godere”, con un particolare interesse per alcuni titoli: il “Salvatore Giuliano” di Francesco Rosi, “Tano da morire” di Roberta Torre sino alla geniale produzione di Franco Maresco e “Il traditore” di Marco Bellocchio.

Ho trovato molto intrigante il riferimento al “Gattopardo”. In una certa fase il cinema ha proposto una immagine stereotipata del capomafia: «I vecchi boss ieratici, sempre in posizione seduta e da fototipo normanno, sono figli ideali del principe Salina del Gattopardo» (p. 64), scrive Morreale. L’idea di una terra irredimibile fa il paio con quella di una mafia invincibile e la raffigurazione cinematografica del principe interpretato da Burt Lancaster «è l’antenato di tutti i vecchi boss che sanno e osservano con disincanto i destini della Storia», basti pensare alla versione cinematografica di don Mariano Arena o a don Vito Corleone.

L’irredimibilità coincide con rassegnazione, accettazione, impossibilità di cambiamento, rinuncia alla lotta. Aspetti questi, però, estranei al "Giorno della civetta"; basti pensare alle ultime parole del capitano Bellodi nel romanzo di Sciascia: si è scontrato nel suo lavoro d’investigatore con un potere, quello mafioso e quello politico, assolutamente sproporzionato rispetto ai mezzi disponibili all’epoca; ha giocato una partita e l’ha persa. L’ha persa per l’impossibilità dei tempi, senza mai smarrire nella sconfitta la lucidità; anzi, proprio da qui rilancia la sfida: «Si sentiva un po’ confuso [Bellodi]. Ma prima di arrivare a casa sapeva, lucidamente di amare la Sicilia: e che ci sarebbe tornato. "Mi ci romperò la testa", disse a voce alta».

Una delle caratteristiche del mafia movie è che «non c’è traccia di opposizione organizzata a Cosa Nostra, né politica né sociale. Gli eroi sono soli, e come loro i giornalisti o poliziotti che momentaneamente li aiutano» (p. 63), insomma: «L’antimafia al cinema la fanno i singoli» (p. 49).

Il modello comunicativo “Spectre/James Bond” ha sempre il successo assicurato al botteghino, non solo perché offre una rappresentazione semplicistica della realtà, l’eroe solitario che con le proprie capacità, unico valore aggiunto della storia, combatte contro il “mostro”, personificazione del male assoluto, organizzato e potente di mezzi e complicità, invincibile, ma perché offre il più perfetto alibi al disimpegno e alla rassegnazione. Giovanni Falcone metteva in guardia dal rischio di esorcizzare il male proiettandolo su comportamenti radicalmente distanti dai nostri: «Se vogliamo combattere efficacemente la mafia, non dobbiamo trasformarla in un mostro né pensare che sia una piovra o un cancro. Dobbiamo riconoscere che ci rassomiglia».

"La Piovra" e la serie di "Gomorra" (la prima) rappresentano due estremi opposti, ma entrambi sbagliati. Nella serie del commissario Cattani si ha una personalizzazione dello scontro con la mafia, secondo un’impostazione eroica e salvifica del protagonista, un eroismo velleitario: la conseguenza è quella di offrire un modello di lotta alla mafia vocato alla sconfitta.

L’opposizione alle mafie non può mai, se vuole essere incisiva, ridursi all’opposizione eroe/male, deve avere una dimensione strategica e organizzata (ancora Falcone). "Gomorra", con un punto di osservazione opposto (dalla parte del “male”), sortisce analogo effetto, una prospettiva di ineluttabilità e di invincibilità radicata nelle dinamiche camorriste. In entrambi i casi a prevalere è la sconfitta ("La Piovra") o l’irrilevanza dell’antimafia ("Gomorra"). Nella serie sui casalesi la cosa che più colpisce è la scelta, meditata e convinta, di esprimere un mondo del tutto chiuso all’esterno: ma così non è nella realtà: il fenomeno mafioso si definisce necessariamente nel confronto con l’azione di contrasto che, inevitabilmente, incide sulle stesse dinamiche interne.

Nell’introduzione Morreale svolge un’impegnativa affermazione che è bene avere sempre presente: «Nessun film o prodotto televisivo ha mai scosso il mondo di Cosa Nostra: l’organizzazione, che ha ucciso e minacciato decine di giornalisti, non si è mai sentita infastidita dal cinema e dalle fiction antimafia» (p. 16). Forse una spiegazione è nelle parole “ciniche” di Franco Maresco nelle ultime due righe del libro. La mafia è un fenomeno complesso, non solo criminale, ma anche sociale, economico, culturale, politico. Non sempre il cinema ha saputo dar conto di queste sfaccettature. Ma la risposta dell’autore di “La mafia non è più quella di una volta”, più di tanti saggi, film, narrazioni indica questo senso della complessità (e della difficoltà): «I ragazzi ti rispondono: "Mi piacerebbe fare il killer, ma se non posso, anche il carabiniere va bene". Tanto sono comunque eroi da fiction, di un super-Blob» (p.311).

 

Emiliano Morreale, "La mafia immaginaria" (Donzelli, pp. 344, euro 30)