La sfida di tenere insieme identità e divenire, le alleanze con i movimenti rivoluzionari, la cibernetica e la biopolitica. Parla il filosofo spagnolo tra le voci più lucide e dirompenti negli studi di genere

Incontro Paul B. Preciado in un albergo del centro di Roma, arrivo insieme alla sua editrice italiana, Tiziana Triana. Quattro anni fa, a Venezia, ci siamo lasciati parlando del tempo, Preciado sosteneva che, senza un nuovo modello di tempo, non si possa fare filosofia, continuava a chiedermi per te che hai studiato matematica che significato ha il tempo. La risposta non è semplice e non è definitiva ma ricominciamo da qui.

In vista dell’incontro, ho letto il suo ultimo libro, "Sono un mostro che vi parla” (Fandango, 2021, traduzione di Maurizia Balmelli) e ho riletto altri suoi libri e ciò che leggerete sotto è il resoconto parziale e fazioso di una conversazione di un filosofo transgender, attivista, curatore d’arte che si definisce «studioso della materia vivente» e appartenente al «materialismo radicale» e al «comunismo somatico» e una scrittrice e saggista omosessuale che ha studiato molti anni matematica, non una attivista.

 

Paul B. Preciado ha messo la nozione di transizione al centro della sua epistemologia, e definito la transizione come l’unica avventura possibile per sottrarre il corpo sessuale alla macchina del capitalismo coloniale dice «in transizione lo siamo tutti, il mondo è in transizione». E io gli credo.

 

Discutiamo in Italia di quale sessualità sia giuridicamente ammissibile o no, discutiamo di quale linguaggio sia inclusivo o no, del maschile che ha storicamente funzione di neutro, dell’utilizzo dello schwa e dell’asterisco senza mai dire, come Paul B. Preciado fa anche in questo suo ultimo lavoro, che la sessualità è una epistemologia, un sistema nel quale certe domande sono accettabili e certe altre no, certe risposte sono possibili e certe altre no. «Non è una questione di biologia, si tratta, ripeto, della macchina del capitalismo, la macchina somatica del capitalismo».

 

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Le macchine calcolatrici avanzano attraverso un codice binario, 0 1, la macchina del capitalismo procede attraverso un altro codice binario, M F. Siamo così attaccati al binarismo di genere da non accorgerci che il codice, la programmazione, è l’unico modo per sovrapporre macchine ed esseri umani?

«Sì, certo, ma questo tuo parallelo è ancora binario. Le corrispondenze uno a uno, per dirlo con la matematica, funzionano tutte in modo binario. Esiste un dibattito enorme sulla storia della sessualità. E su quanto la storia della sessualità debba essere inserita nell’ambito della storia della Scienza e della Tecnologia. Pensa a "Manifesto Cyborg” di Donna Haraway (“Manifesto cyborg. Donne, tecnologie e biopolitiche del corpo”, a cura di Liana Borghi, Feltrinelli 2018, n.d.r.) che fa entrare le istanze femministe nella storia della sessualità. Il punto non è l’identità, M o F, ma l’esperienza dell’identificazione. Il trans non fa parte del nuovo proletariato sessuale, nonostante la sua posizione sia stata storicamente oppressa. È un modo, è un corpo che consente di inventare e esperire pratiche rivoluzionare rispetto alla norma. Per me la filosofia, e sono certo per te la matematica, ha consentito una interruzione dell’automatismo del pensiero. Interrompere l’automatismo del pensiero è ciò che bisogna esercitarsi a fare».

Ho pensato a quella faccenda del tempo. Noi diciamo che le cose cambiano perché il tempo passa, in realtà, l’unica cosa che possiamo dire è che le cose cambiano. E dunque è il cambiamento che implica la nozione di tempo, non viceversa. Il corpo trans rende evidente che il tempo passa, col tuo corpo hai fatto e fai questo.

«Sì, per me è una nuova ontologia, non solo un corpo politico. Per questo dico che tutto il mondo è in transizione. La nozione di transizione è uno strumento epistemologico».

Torniamo sull’inserire la storia della sessualità nella storia della scienza e della tecnologia.

«I movimenti sociali non hanno familiarità con le nozioni scientifiche. Anzi, lavorano con nozioni che dal punto di vista scientifico sono naive. Mi interessa porre in dialogo i diversi movimenti rivoluzionari. Farli parlare tra loro. Il movimento ecologista, per esempio è disconnesso dal movimento femminista che, in parte, è a sua volta disconnesso dal movimento anti-coloniale. Hai punti di contatto, per esempio Black Lives Matter, ma se vai a Dakar i movimenti anti-colonialisti sono maschilisti. Come dialogano queste realtà? Mi piacerebbe introdurre la nozione politica di superstringa, una teoria del tutto che tenga insieme i movimenti. Le superstringhe sono nate per cercare di tenere insieme la fisica newtoniana, la fisica delle particelle, la gravità quantistica, etc... e penso che, in termini politici, sia necessario tentare una teoria del genere che ci consenta di tenere insieme identità e divenire. Mi interessa la superstringa politica, una chiamata collettiva a chi lavora per l’anticolonialismo, l’ecologia, per il femminismo, o inventiamo questa nozione o vincerà il capitalismo cibernetico, Instagram, Facebook...».

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Ma identità e divenire sono un falso problema, penso all’identità come ai numeri naturali, al discreto, e al divenire come ai numeri reali, al continuo...

«O non continuo. Pensa se fosse non continuo. Il discreto e il continuo sono in fondo lo stesso modello».

Dici che sono Binaria?

«Eh… (ride), noi stessi siamo in un processo di transizione, stiamo cercando un modello nuovo, forse non continuo, nessuno di noi due può dire ho avuto una idea geniale, è un processo collettivo, forse durerà duecento anni, la questione è che lo stiamo elaborando insieme, dobbiamo elaborarlo insieme».

L’Homo sacer che rompe l’equilibrio tra cittadini e dèi e sta al centro dell’opera di Agamben, e il vivente in transizione al centro della tua opera, c’è un dialogo?

«No, non direi. Agamben è un pensatore teologico, pensa dunque attraverso nozioni che sono teologiche e ha come orizzonte ultimo la Seconda Guerra Mondiale. E dal punto di vista della guerra come orizzonte mi interessa più Gunther Anders» (Le opere di G. Anders sono pubblicate in Italia, tra gli altri, per i tipi di Bollati Boringhieri, Mimesis e Giuntina, n.d.r.). Una delle cose interessanti di Gunther Anders è che, essendo stato il primo marito di Hannah Arendt, è conosciuto come “il marito di”, non è accaduto a nessun altro filosofo nella storia. È un personaggio dissidente, percepito come filosofo fallito, editorialista fallito, è l’unico che dopo la Seconda Guerra Mondiale non si identifica con la posizione di vittima dell’olocausto. Nel 1954 partecipa al primo congresso sulla bomba atomica, è il primo a pensare che Hiroshima sia uguale all’olocausto, non una cosa diversa. Non cede alle dicotomie Nazismo/Democrazia, Bene/Male. Noi usciamo dall’olocausto con la bomba atomica, non con un processo di emancipazione creativa, ne usciamo con un processo di distruzione totale. È un problema enorme che Anders vede. L’uscita dall’olocausto è stata una prosecuzione della guerra, non è stata la fine della guerra che ci ha condotti in una democrazia meravigliosa. Non abbiamo chiuso la Seconda Guerra Mondiale, l’abbiamo estesa a una guerra totale, una guerra riproduttiva, coloniale, ecologica fondamentalmente dominata da una tecnologia della morte. Tutta la nostra tecnologia funziona come un dispositivo di morte. La domanda è se sia possibile trasformare questa tecnologia in qualcos’altro o no? Se non è possibile, qui stiamo solo lanciando segnali di fumo».

Il gruppo di Stefano Mancuso e il laboratorio Barbara Mazzolai stanno studiando la possibilità di computer ispirati alle piante e addirittura biodegradabili. Questi computer tecnicamente morirebbero, non sono fatti di carbonio, ma di silicio, forse se riusciamo a trasformare l’obsolescenza tecnologica in morte del dispositivo, possiamo cambiarne la natura necrotica e necropolitica.

«È interessante quello che dici, ma credo che la questione nel fondo sia se è possibile togliere quella che tu chiami macchina di carbonio dalla logica produttiva del capitalismo. Questa è la domanda, perché la logica produttiva del capitalismo è una logica della distruzione, una logica di morte. Non mi vedo in discussione con Agamben, con la sua, come dire, anarchia messianica. Vedo la mia filosofia come una specie di materialismo radicale, come un comunismo somatico» (ride).

Un’altra domanda. La questione Vaccino sì o no, come la trattiamo politicamente? Ammesso sia una domanda.

«È una domanda sì, e solleva una questione complessa. Cominciamo da qui (tutto questo è argomento del mio prossimo libro, “Disphoria Mundi”, che uscirà in Francia e Spagna in primavera, e in italiano sempre per Fandango più avanti): ll Covid-19, appena è apparso, è stato raccontato come qualcosa di inaudito, che non c’era mai capitato prima. Come se non avessimo avuto, e non avessimo, alcuno strumento storico, o memoria, è il racconto della grande rottura con tutto ciò che era avvenuto prima. La crisi dell’Aids, all’interno dei movimenti, non è stata ricordata. C’è una specie di amnesia che riguarda gli anni Ottanta. Gli anni Ottanta vengono ricordati come quelli del liberalismo, sono invece gli anni dell’Aids. Avremmo potuto assumere come paradigma di racconto ciò che è successo negli anni Ottanta con l’Aids e ripartire da lì».

Hai ragione, ma l’Aids è stato raccontato come una infezione, una malattia, un virus che riguardava una sola parte dell’umanità, essenzialmente gli omosessuali.

«Certo, questo è quello che dico sempre, e di cui parlo anche in questo ultimo libro, la cartografia dell’Aids è stata pensata attraverso la logica dell’identità. Gli omosessuali, gli emofiliaci, i consumatori di eroina... l’Aids è stato usato e trattato come una tassonomia identitaria. Ricordiamo però che quando l’Istituto Pasteur nel 1963 o ’64 dà il nome al virus, lo chiama HIV, dove la H sta per Human, virus da immunodeficienza umana. Questa H è definitiva, perché oggi, per esempio, il virus dell’HIV interessa principalmente le donne africane, non gli uomini omosessuali etc etc... sto cercando di dire che la crisi dell’Aids ci ha mostrato alcune cose, un indice di strategie politiche».

Esempio?

«Aprire la pillola: la chiamo così. Una strategia che dice quali potrebbero essere le nostre relazioni politiche con la tecnologia che siamo. Mi spiego, penso all’AZT, il trattamento che non funzionava per il cancro e viene utilizzato per i malati di Aids. Si prendono due gruppi, a uno si somministra il farmaco, a un altro gruppo un placebo. Aprire la pillola vuol dire capire cosa c’è nella pillola. Placebo o cura. Il vaccino è, prima di tutto, un oggetto delle società farmaceutiche. Non è un’idea, è il prodotto di aziende farmaceutiche e dunque, in ottica capitalista, un corpo infermo e un corpo immune sono due cose diverse. Un corpo infermo è un corpo che ha dentro di sé il virus, lo manifesta, mostra sintomi o non li mostra, comunque manda un feedback e in questo senso è un corpo cybernetico. Chi prende il placebo muore. Aprire la pillola significa conoscere. Il nostro problema contemporaneo è non conoscere le tecnologie che ci modificano. Parlare di vaccino vuol dire parlare di contesto scientifico, tecnico, tecnologico, e del capitalismo farmacologico in cui il vaccino viene prodotto. Il brevetto del vaccino non è libero. La domanda non è vaccino sì o no, come fosse un assoluto, come stessimo chiedendo Dio sì o Dio no. Aprire la pillola è un possibile processo per una emancipazione contemporanea. Bisogna fare lo stesso col telefono, col computer, col dispositivo».

C’è una questione. Fino a un certo punto le macchine sono state costruite dagli esseri umani, adesso vengono assemblate da altre macchine, penso ai computer, o ai telefoni, penso al fatto che negli anni Novanta non solo ero in grado ma era possibile smontare gli elementi di un computer portatile... Bisognerebbe insomma conoscere il funzionamento della macchina che produce le macchine...

«Sì però in tutti i casi... sono d’accordo... non voglio considerare la macchina in maniera esoterica».

Non è esoterica, è pratica.

«È il principio che ho col testosterone, come funziona la molecola... Il virus, il Covid-19 ha invece una natura opaca, si presenta come un’entità inaccessibile, come l’alterità assoluta, è un concentrato di processi tecnici, umani e discorsivi».

È comportamentale.

«Sì, comportamentale... Parlo molto con i gruppi attivisti latino-americani, lì la gente muore di Covid-19, il governo boliviano o il governo cileno non possono produrre il vaccino da soli perché hanno pochi soldi, in Francia per converso c’è un movimento assolutamente snob, antivaccino, ridicolo, assurdo».

Anche in Italia.

«Certo. Agamben, per esempio, ha assunto una posizione molto simile a quella di Foucault negli anni Ottanta riguardo all’Aids. Foucault pensava che l’Aids fosse una invenzione del capitalismo degli anni Ottanta, una invenzione dialettica, ideologica... Credo che la bellezza oggi sia che le istanze biopolitiche sono reali, questa è la bellezza di ciò che sta succedendo. Agamben, per esempio, non può semplicemente applicare il principio di “Bartleby lo scrivano” (la novella di Melville n.d.r.), “I would prefer not to”, non puoi dire al virus “preferirei di no”. I sentimenti biopolitici, anzi bionecropolitici sono evidenti, le tecnologie di massimizzazione della vita sono evidenti».

La massimizzazione della vita è necrotica in sé.

«Esatto, ma mi piace sorvegliare il “necro”, altrimenti si pensa a una perfetta coincidenza tra “bio” e “politico”, invece no, in mezzo c’è quel “necro”. Il necro domina attraverso i dispositivi che finora abbiamo detto essere dispositivi di morte. Non ci si può sottrarre alla forma specifica di manifestazione della realtà rappresentata dal biopolitico, e dal corpo stesso. Agamben potrebbe sottrarsi al virus solo sottraendo il suo stesso corpo. Questo è il problema di Agamben, la sua filosofia non tiene conto dell’economia del corpo, se uno ha una posizione non corporale può dire, come Bartleby, “preferirei di no”. Non si tratta di vaccino o non vaccino. È ancora un pensiero binario, così. Invece la questione è qual è il dispositivo. In che ambito produttivo di dispositivi che permettono la sopravvivenza siamo. Come si fabbricano. Dove si fabbricano. Quali sono le fabbriche. Sono più d’accordo con Bruno Latour che è un signore di laboratorio e che sa come si producono i vaccini».

Il testo con cui Wiener diffonde, divulga la cibernetica si chiama “The Human Use Of Human Beings”, e dice essenzialmente che l’unico modo per sopravvivere alla terza rivoluzione industriale che è quella delle macchine, è studiarle, aprire la pillola come dici. Era il 1951 e mi pare che siamo distanti da quella comprensione.

«Il corpo stesso è un dispositivo, certo. Un dispositivo in grado di dare feedback. Wiener non è abbastanza letto dai movimenti, ha dentro la teoria della computazione e per molti è difficile da leggere».

Beh, meno di Turing o Von Neumann.

«Certo, Turing è il più difficile di tutti e soprattutto Wiener vuole comunicare».

La discussione potrebbe continuare, e continuerà, ma intanto guardo la copertina del volume e vedo quella bocca spalancata e piena di denti, penso alla sala piena di psicanalisti e psicanaliste che gli impedisce di parlare ruggendogli contro.

In fondo, la psicanalisi è l’ultima grande tassonomia ottocentesca, ci pensi mai?

«No, no, ce ne sono altre, ma diciamo che è l’ultima percepita come progressista».