Rachel Auerbach, la donna che salvò la memoria del ghetto di Varsavia

Tra gli ebrei, nel Novecento, forte è stata la tentazione di far storia raccontando le proprie vicende, scrivendo diari, raccogliendo le testimonianze. Tra i tanti spicca la figura di una giornalista e pedagoga che dirigeva una mensa popolare

In genere, la disputa circa la storiografia ebraica, una disciplina che ha come suo pioniere Heinrich Graetz, che a metà dell’Ottocento dà alle stampe, in tedesco, un testo in undici volumi intitolato “Geschichte der Juden von den ältesten Zeiten bis auf die Gegenwart” (Storia degli ebrei dai tempi antichi e fino alla contemporaneità), verte attorno alla questione su quanto la storia appunto degli ebrei debba essere considerata nella sua particolarità e quanto invece inserita nel quadro delle vicende dei Paesi in cui gli ebrei hanno vissuto.

 

Ma c’è un altro aspetto della discussione, non spesso raccontato. Ecco, il destino ha voluto che fra gli ebrei, nel Novecento, forte è stata la tentazione di far storia, raccontando le proprie vicende, scrivendo diari, raccogliendo le testimonianze. In altre parole, sono stati gli oggetti della storia a fare la storiografia. E in questa impresa, dove è esaltata la soggettività, c’è un posto particolare per le donne, in specie per una donna, Rachel Auerbach.

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Ma procediamo con ordine. L’idea di chiedere alla gente di scrivere la propria storia era venuta alla vigilia della Prima guerra mondiale a tre scrittori e intellettuali: Jakob Dinezon, Isaac Leib Peretz e Shmuel Ansky. Avevano intuito che un mondo, quello degli ebrei del centro Europa, stesse per finire e che occorresse conservarne la memoria. Poi, con l’invasione della Polonia da parte dei tedeschi nel 1939, iniziò la vera catastrofe. Ma immediatamente, a ottobre 1939, a Varsavia uno storico brillante e tenace, Emanuel Ringelblum, fondò un circolo clandestino, Oneg Shabbat (la gioia del Sabato) di intellettuali, giornalisti, scrittori, storici, leader politici e spirituali. Erano centinaia di persone chiamate a scrivere analisi sociologiche, resoconti medici, rapporti sulla condizione dei bambini, diari, e a raccogliere ogni testimonianza materiale possibile, da copie di giornali e volantini, ai biglietti di tram. La storia veniva raccontata mentre accadeva. E gli storici erano gli oggetti della storia.

 

Una delle persone coinvolte era appunto la giornalista e pedagoga Rachel Auerbach, che dirigeva una mensa popolare nel ghetto. Quando i tedeschi nell’estate del 1942 cominciarono la deportazione della popolazione del quartiere ebraico, gli archivi del circolo vennero collocati in contenitori di metallo per il latte, e nascosti nei sotterranei di una scuola. Ma dopo la guerra il terreno del ghetto era un ammasso di macerie. Irriconoscibili le strade, morti quasi tutti i partecipanti dell’Oneg Shabbat. Auerbach era una delle tre persone sopravvissute. E anche grazie a lei e alla sua memoria, quel tesoro fu trovato (in due riprese). E così il ghetto di Varsavia è il pezzo di storia meglio documentato della Shoah.

 

Lei emigrò in Israele. Lavorò a Yad Vashem. Litigò subito con il direttore di allora, che non gradiva l’idea della storia fatta di testimonianze e non documenti ufficiali. Venne licenziata poi riassunta. Senza il suo contributo sarebbe stato impossibile preparare il processo ad Adolf Eichmann. Morì, solitaria, nel 1976, aveva 73 anni.

Per chi vuole saperne di più c’è il libro di Samuel Kassow “Chi scriverà la nostra storia?” (Mondadori) e un film dallo stesso titolo con la regia di Roberta Grossmann.

 

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