Remake, sequel, déjà-vu. Dal cinema alla moda, dalla musica al design, dalla narrativa all’arte, dalle tendenze giovanili alla politica, cresce la nostalgia. La citazione prende il posto dell’invenzione. E il passato diventa antidoto al presente

Postal Market, Pac-Man e Subbuteo: benvenuti nell’età del vintage

Le pastiglie Leone all’assenzio. Le liquirizie Tabù, nella scatolina di latta. La dolcezza della cedrata, con la scritta Tassoni Soda sul vetro della bottiglietta. L’aranciata amara Sanpellegrino o il Camparino rosso, bottiglietta monodose firmata da Fortunato Depero. Gusti inconfondibili di una volta: come la Coppa del Nonno, le Tic-Tac, il biscotto Bucaneve o l’Atene Doria con l’immancabile greca.

 

«Ti sblocco un ricordo»: l’espressione ha cominciato a circolare sui social tra la fine del 2020 e l’inizio di quest’anno, sull’onda della nostalgia di una normalità di vita stravolta dalla pandemia. Tra il desiderio di riprenderci le nostre abitudini e un riscoperto senso di collettività, il ricorso al “come eravamo” è diventato moda e mania, ed è risalito all’indietro, di decade in decade, in un inarrestabile gioco di link tra immagini, meme, ricordi. Espressioni di un passato in cui rifugiarsi, ma anche di un’esperienza comune e riconoscibile, di uomini, di sigle e di cose, tutti peraltro già in piena riscoperta: la rivista tascabile Cioè, che in edicola celebra i suoi primi 40 anni; il catalogo Postal Market, rinato con un portale online; il Buondì Motta, i gadget del Mulino Bianco, lo spot Apple del 1997 con il claim “Think Different” e la mela ancora colorata; la signora vestita di giallo che rivolgendosi al maggiordomo Ambrogio, con voglia di qualcosa di buono, riceve un Ferrero Rocher. 

IL_GRANDE_LIBRO_DEL_VINTAGE_COPIA

Citazionistico e compiaciuto, o inconsapevole e istintivo, il ritorno al passato è un fenomeno culturale tra i più evidenti della contemporaneità. Manifestazione di una nostalgia, con radici profonde e complesse, nella quale in tempi frenati dal virus abbiamo giocosamente indugiato. Ma la tendenza è chiara da un pezzo: se il vintage è un ripiego nel noto, affidabile e certo, se per molti “all’antica” è una maniera di esistere, un punto di vista diverso rispetto a un presente che piace di meno, sono i più giovani a far detonare il fenomeno, con la loro riscoperta di un’estetica alternativa e disomologante. Che diventa persino linguaggio in codice: come quando sostituiscono gli emoji dei telefonini, ora che sono terreno dei boomers, con simboli di emotività più smaccatamente vintage, come quelli resi possibili dalla combinazione di caratteri: per esempio il cuore emo, simboleggiato da <3 al posto del più esplicito pittogramma. Sintassi solo apparentemente nuove. E stili di vita e di consumo che dettano le scelte d’acquisto: il vinile, per contrappasso alla disponibilità infinita di musica in streaming; i brand di una volta da indossare, in reazione alla fast fashion a buon mercato ma uniformante. Risultato? Dalla polvere d’infanzia del Borotalco Roberts al profumo di mandorle della colla Coccoina, il passato torna con i suoi oggetti più simbolici.

 

Emblemi di libertà, come la bicicletta Graziella o le infinite variazioni d’uso intorno alla “Lapa”, versione siciliana della laziale Apetta e dell’italica Apecar, a sua volta rielaborazione del 1971 di un motocarro inaugurato nel 1948 in un’Italia stremata dalla guerra. Modelli di spensierata sperimentazione, come quella evocata dalla riedizione del Commodore 64, dal ritorno del Subbuteo e gli antichi giochi da tavolo: dal Monopoli al Risiko, dal nuovo boom delle figurine Panini, dei mattoncini Lego, di Super Mario Kart, dei Pokemon e di Pac-Man. Passato che si indossa in passerella e per le strade, retroglamour fatto di gonne a ruota anni Cinquanta e vestiti bon ton, camicette a pois, ballerine Madame Repetto per neo-Audrey Hepburn e occhiali da gatta alla Brigitte Bardot. E un tripudio di lavorazioni all’uncinetto (il crochet), gonnoni folk, abiti infiniti anni Settanta. Senza dimenticare lo stile minimal e comodo, come quello sperimentato nei mesi della quarantena: libertà ritrovata e ormai irrinunciabile, che sembra uscita direttamente dagli anni Novanta, e che ha sgominato più formali look da ufficio.

 

Incollati alle serie tv, ci ritroviamo di nuovo pazzi per “Friends”. Con “The Reunion”, che a maggio ha tenuto incollati agli schermi milioni di persone, tra le lacrime dei protagonisti: «Si tratta di quel periodo della tua vita in cui i tuoi amici erano la tua famiglia», ha sintetizzato il coautore, David Crane. Riesplode la passione per soggetti e film d’animazione come “Mazinga” e “Goldrake”, “Heidi” e “Lady Oscar”, “Mary Poppins” e “Piccole donne”, i “Flinstones” e “Scooby-Doo”; ma anche per quelle produzioni un tempo considerate di serie B, per i dvd, per le musicassette. Oggetti ritrovati: formati desueti, che raccontano un desiderio di ridare valore alle cose, contro l’immaterialità che sembra avergliela sottratta. Oggetti di cui prendersi cura, senza la scadenza di un abbonamento da rinnovare. Segnali di scelta: di un titolo acquistato tra tanti. Richiesta di sosta: di un tempo più lento, dietro il fruscio di una puntina, per una musica da gustare con comodità, contro il consumo reso frettoloso dall’ansia di consumare il catalogo sconfinato di Spotify. È la forza dirompente del vintage, riflesso condizionato collettivo che va ben oltre la definizione originaria del nome: dal francese antico “vendenge”, per indicare vini di annata di pregio. Etimologicamente, però, la parola “vintage” deriva dal latino “vindemia”, composta dai termini vinum e demere: levare, raccogliere il vino.

Per estensione, chiamiamo vintage le cose rese pregiate dall’invecchiamento. Tecnicamente, bastano una ventina d’anni per rendere un oggetto vintage. La differenza, ciò che rende autenticamente vintage un oggetto semplicemente vecchio, è nella qualità, che gli consente di durare nel tempo. E nella capacità che quell’oggetto ha avuto di innovare: di imporsi rispetto all’ordinario, come punto di passaggio nel gusto, nello spirito, nelle forme.

Vintage diventa, per valore, per originalità, per capacità di essere inimitabile, sinonimo di raro e irripetibile. Sia che si tratti delle 1200 pagine di Margaret Mitchell in “Via col vento” – un milione di copie vendute nel 1939, e uno dei più grandi casi editoriali della storia –, che ritorna ciclicamente in libreria, proprio quando sembra scivolato nel dimenticatoio. Sia che si tratti di una giacca di pelle anni Settanta, di un pizzo che nessuno sa tessere più, di una rimpatriata di band anni Novanta, di un servizio da tè anni Cinquanta. “Il mondo della teiera” lo chiama proprio Olga Tokarczuk, Nobel per la Letteratura 2018, che di nostalgia è raffinata maestra. Nel suo discorso a Stoccolma il 7 dicembre 2019, ha parlato di vecchie fotografie, di legami con le cose, e di una favola di Hans Christian Andersen su una teiera gettata nella spazzatura, che si lamenta di essere stata trattata dalle persone in modo crudele: non appena le si è rotto il manico si sono liberati di lei.

«Da bambina ascoltavo questa fiaba con le guance arrossate e le lacrime agli occhi, perché ero convinta che gli oggetti avessero i loro sentimenti e persino una vita sociale paragonabile alla nostra». Perché una cosa è un nodo di relazioni, ha spiegato meglio di tutti il filosofo Remo Bodei: le cose non sono fatte solo di materiali, ma di valori, simbolici e affettivi, e di legami. «Gli oggetti sono qualcosa di cui ci si appropria», diceva: «Ci stanno di fronte e aspettano di essere consumati. Le cose, invece, sono strati di senso che si depositano nel tempo e che fanno parte di noi. Le cose ci mettono in contatto con esperienze del mondo che si sono oggettivate. Una volta riportate a noi, ce lo fanno comprendere».

 

Oggi il vintage è sempre più espressione di lusso. Ma alla base c’è l’interesse verso cose con una storia da raccontare, originali e non automaticamente replicabili. Come quelle che si trovano nei negozi di second hand, ovunque in crescita. Soprattutto tra i più giovani, che l’armadio della nostalgia depredano, reinventano e indossano tra cambi di funzione e decostruzioni, trasformandosi non in controfigure del passato ma in emblemi di contemporaneità. Visto da lì, dai vintage market nel mondo, una rivoluzione politica, anticapitalistica è in corso: contro chi fissa il prezzo prescindendo dal valore delle cose e dalle condizioni di chi le produce; contro quelle merci frutto di un lavoro astratto, dove le persone sono nascoste sotto l’involucro delle cose, per citare la teoria marxiana del valore, contro la standardizzazione, che rende tutto ripetibile col solo ausilio di una stampante 3D. “C’è un’orgia di reminiscenza in circolazione”, ha titolato The Economist qualche tempo fa. Avendo in mente quella che il sociologo Colin Crouch ha definito “politicizzazione del pessimismo nostalgico” da parte dei nuovi movimenti conservatori. Una tendenza che l’Istituto Bertelsmann Stiftung, con lo studio “The power of the past – How nostalgia shapes European public opinion”, rivolta a 10 mila cittadini dell’Unione Europea, ha ritratto. Un tempo il mondo era un posto migliore? Il 67 per cento ha ammesso la sua nostalgia: in Francia il 65 per cento, in Germania il 61, in Spagna il 64. Il Paese più attaccato al passato si è confermato l’Italia: per il 77 per cento le cose prima andavano decisamente meglio. Ma prima quando?

 

In “Cronorifugio”, lo scrittore Georgi Gospodinov, immagina un referendum col quale tocca ai cittadini stabilirlo. La Francia sceglie l’inizio degli anni Ottanta; lo stesso fa la Spagna; la Svezia e i paesi del Nord Europa preferiscono gli anni Settanta; i paesi dell’ex Patto di Varsavia votano per un ritorno al 1989 e al 1990, la Svizzera opta per restare nel presente. E l’Italia? È l’unica a scegliere gli anni Sessanta, riprendendosi la sua età felice: quando Fellini vinceva la Palma d’oro a Cannes con “La dolce vita”, la gente viaggiava sull’Autostrada del Sole, la tv irrompeva nelle case, insieme a lavatrici, frigoriferi e automobili. È l’eterna tentazione della macchina del tempo, capace di sbalzarci avanti e indietro in pochi secondi, e con noi ogni più classica teoria eraclitea. Zeitgeist intercettato con consueta fulminea brillantezza da Altan in una sua vignetta sull’Espresso: «Ho inventato una macchina del tempo. È un vero cesso: va solo indietro». E così il New European Bauhaus, il più grande programma di rilancio culturale postpandemia della Commissione europea, richiama la Staatliches Bauhaus, la scuola d’arte e design fondata a Weimar nel 1919 da Walter Gropius: il futuro, per ripartire, sceglie gli anni venti. E reclama complicità con tutto ciò che abbiamo amato e condiviso. Un’intercapedine invisibile nella quale può calarsi un quasi ottantenne Harrison Ford, indossare un vecchio Borsalino, e ritornare a essere, per la quinta volta e quaranta anni dopo “I predatori dell’arca perduta”, l’Indiana Jones della storia del cinema. Il vintage di un nome sempre più ricorrente: “Archivio”, che è un luogo dove ogni cosa ha il suo posto, ma cresce, cambia forma e significato, come un magazine di narrazioni che aspira a non stare fermo.

Il vintage di Luca, la favola Disney-Pixar, tra borghi che affiorano dal mare, biciclettate tra i carrugi, atmosfere anni Cinquanta. E quello divertito degli Extraliscio, punk ai confini della balera e della tradizione folk romagnola. Il vintage delle carte da gioco Uno di Mattel: le ideò un barbiere di Cincinnati, se ne vendono 17 mazzi al minuto. E quello che ha i suoni e gli stili di una generazione di artisti che cita, saccheggia, rinnova: Lana Del Rey e Marina, Lorde e Finneas, Taylor Swift e Olivia Rodrigo, Blanco e Levante. Perché uno spirito protettivo aleggia su un presente fragile. Verità che Louise Glück confida in “Nostos”: «Guardiamo il mondo una volta sola, nell’infanzia. Il resto è ricordo». 

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