Gli atroci misfatti della Wehrmacht dopo Stalingrado. Raccontati da un ex artigliere tedesco in una lunga, emozionante lettera:è il romanzo-gioiello di Alexander Starritt

La prima voce che ascoltiamo è quella di un bambino. Racconta, con il candore dell’infanzia, del nonno tedesco. La farmacia nei dintorni di Heidelberg dove lui, nato e cresciuto in Inghilterra, trascorre con la mamma estati spensierate. I nonni tedeschi che lo viziano e si godono una lauta pensione in quella parte della Germania-ovest che, da decenni, è la locomotiva economica d’Europa. Poi il bambino cresce, studia storia e letteratura tedesca e, come ha fatto sua madre col padre negli anni Settanta, pone al nonno le più terribili domande: dov’eri tu nel settembre del ‘39, con quale divisa marciavi quando Hitler lanciò le sue armate contro l’Europa?

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È a quel punto che “La ritirata”, il romanzo in parte autobiografico dello scrittore inglese Alexander Starritt (edito da Guanda), si rivela un sorprendente, preciso gioiello lungo 224 pagine. In cui il nonno, tale Hans Meissner, ex farmacista novantenne, spinto dal nipote, raccoglie in una lettera i ricordi dei suoi quattro anni di guerra. Più altri tre terribili anni rinchiuso nei gulag sovietici. L’immane tragedia della Seconda guerra mondiale affrontata dal giovane tedesco a 19 anni, reclutato dalla Wehrmacht nel momento in cui voleva iscriversi alla facoltà di Chimica.

«Mio nonno non era un nazista né iscritto al partito», precisa Starritt nel suo tedesco perfetto, con dolce cadenza inglese: «Noi inglesi nutriamo ancora oggi tanti pregiudizi contro i tedeschi. La guerra l’abbiamo vinta noi. Ma da decenni assistiamo al fatto che la Germania, dopo la catastrofe del nazismo, si è stabilizzata al centro d’Europa e ci ha superato dal punto di vista economico». È anche per questa fatale angolazione di esasperati pregiudizi contro i tedeschi (non per niente il titolo originale del romanzo è “We Germans”), che il romanzo di Starritt è salito in vetta alle classifiche, coperto di elogi sia dal Times che dal New York Times. «Sì, con quel titolo ho un po’ ammiccato ai pregiudizi sulla testardaggine, la precisione, la fredda ostinazione e l’ubbidienza cadaverica dei tedeschi per le regole», ammette lui. E dopo aver elencato il catalogo delle «classiche virtù teutoniche», come dice ironicamente, Starritt aggiunge: «Di fatto, il carattere di mio nonno corrispondeva molto a quel modo di fare e di pensare».

 

Nelle prime pagine del romanzo ecco il giovane Hans, traboccante di orgoglio per la micidiale potenza della macchina d’assalto tedesca: incantato dalle operazioni del “veloce Heinz”, il generale Guderian che con i suoi panzer sgominò la Francia in un paio di giorni. Ora però il giovane artigliere sfila, a cavalcioni del suo obice, per le praterie dell’Ucraina. Da studioso di chimica il destino lo ha trasformato in uno dei tre milioni di soldati dell’Operazione Barbarossa, lo spietato attacco che Hitler sferrò il 22 giugno 1941 contro l’Unione Sovietica di Stalin. Quella che i generali della Wehrmacht e le truppe speciali delle SS combatterono all’Est, in Polonia, Ucraina e poi in Russia non fu una “guerra normale”.

 

«Fu una guerra feroce e di stampo coloniale, per il dominio di quello che nel razzismo di Hitler doveva essere “spazio vitale” tedesco, con conseguente sterminio dei popoli slavi, il genocidio degli ebrei e la schiavizzazione di soldati e civili». È in mezzo a questa sistematica campagna di annientamento che ritroviamo l’Oberkannonier Meissner, il giovane artigliere che per quattro anni di fila combatte e uccide a cannonate come meglio può. Dopo la disfatta della sesta armata del generale Paulus a Stalingrado, l’avanzata tedesca muta in un crollo totale, morale e psicologico, e la barbarie durante la “ritirata” della Wehrmacht si fa, se possibile, ancora più atroce. «Per anni ho studiato i vari rapporti sui misfatti della Wehrmacht e delle SS: gli episodi atroci raccontati nel romanzo sono veri, accaduti a centinaia durante la ritirata», spiega Starritt. Vestito ormai di stracci, con armi di fortuna spesso rubate al nemico, il soldato Meissner vaga con altri disperati alla ricerca di cibo. 

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«Per queste scene mi sono anche ispirato alle disavventure e all’atmosfera del “Simplicissimus”»: il primo romanzo tedesco, scritto da Grimmelshausen nel 1668, narra le crudeltà della Guerra dei 30 anni, forse la situazione storica più vicina agli orrori che bruciarono l’Europa dell’est dal 1939 al 1945. Giunti in un villaggio polacco saccheggiato, Hans e i suoi quattro disperati incontrano l’apocalisse: donne, uomini e bambini impiccati a un albero e lasciati in pasto alle fiere. Più avanti, Meissner e il suo gruppo di predoni assistono ad un’altra scena infernale: orde di tedeschi ubriachi crocifiggono, inchiodandoli a un casale, contadini e partigiani. Anche se in preda alla più bieca disperazione e al più cieco razzismo, come possono ventenni in uniforme arrivare a crimini del genere? E perché se sbandati, senza cibo e con poche armi hanno combattuto sino all’ultima pallottola, anche quando, ormai in Germania, erano accerchiati dagli eserciti alleati? È davanti a queste domande che il romanzo di Starritt rivela la sua più drammatica intensità. «Soldati come mio nonno hanno combattuto spinti da un malinteso senso del dovere, per quel modello educativo tedesco che li spingeva a compiere il dovere prima di tutto, e a farlo anzi il meglio possibile», riflette lo scrittore. In effetti «fare le cose in piena coscienza e il meglio possibile» è un ritornello dell’etica protestante che torna spesso fra le righe che il nonno lascia al nipote. Già, ma basta a desiderare di immolarti e sapendo benissimo che, dopo Stalingrado, la guerra è perduta?

 

Una risposta può certo essere anche la paura per le crude vendette dell’Armata Rossa, per i 20 milioni di russi sterminati dalla Wehrmacht. «C’è però un altro aspetto che mi ha sempre colpito nella mentalità tedesca e che ispirò oltre alla catastrofe in Russia anche l’ultimo ordine di Hitler di incendiare le città tedesche», argomenta Starritt: «È il mito dei Nibelunghi, votati alla morte, che scelgono di sacrificarsi combattendo». Possibile che un artigliere come Hans Meissner credesse ancora al crepuscolo degli dei, al mito del Führer o ai comandi degli ufficiali? Nelle pagine che scrive al nipote, il nonno ritorna più volte sui rovelli della “colpa collettiva” della Germania nazista, elaborati, nel primo dopoguerra, ad esempio dal filosofo Karl Jaspers. A 90 anni, nel suo ospizio sui colli di Heidelberg, l’ex artigliere e farmacista non trova “colpe” nell’esser stato reclutato nelle armate di Hitler. Ma sente invece sino ad oggi, 80 anni dopo quelle tragedie, una vergogna profonda per aver rubato un vaso di cetrioli ai contadini russi. Ne rivede i volti emaciati quando siede al ristorante. Più che la colpa, «categoria religiosa e ambigua», è questo sguardo sulle responsabilità del singolo soldato, della persona presa nello tsunami della catastrofe storica ciò che traspira in ogni pagina del suo romanzo.

 

«La mia generazione non guarda più agli orrori del nazismo con le categorie che avevano in mente i nostri genitori nel ’68», spiega l’autore: «Allora si cercava una psicoanalisi di Hitler, della follia di Himmler, o di capire il coraggio estremo di eroi come von Stauffenberg e il suo attentato del luglio 1944 contro Hitler». Ma le armate gettate dal Führer contro Stalin non erano composte da generali, da eroi o grandi politici, ma da milioni di soldati come quei disperati che incontriamo nel romanzo. «Oggi guardiamo alla singola persona», conclude Starritt: «Ma non vuol dire che provi empatia per gli atti compiuti in guerra da mio nonno, che per tutta la vita si vergognò di quello che vide e fece al fronte».