«La sclerosi mi ha insegnato un nuovo modo di sorridere»
Il timore della compassione. La gabbia dei pregiudizi da combattere anche con cattiveria. Fino alla scoperta di un inatteso spazio di serenità. L'apprendistato di vita e di dolore nelle pagine di "Bianco è il colore del danno"
Custodisco la mia vecchia Polaroid in una scatola di legno in camera da letto. È beige con le strisce arcobaleno al centro, sotto l’obiettivo. La plastica granulosa è attraversata dai segni del tempo, qualche colore è sbiadito e qualche altro scurito dagli anni. Nella scatola conservo anche le fotografie stampate. Le guardo spesso. Nella riproduzione di pezzi di vita cerco un corpo che mi somigli, ma in ogni frammento minuscolo. Cerco la risposta alla domanda: in cosa quel corpo mi somiglia sempre, in cosa quel corpo mi somiglia ancora?
Indago quello che si è rotto, le esitazioni e gli inciampi delle prove che ho perso, gli uomini che ho desiderato e quelli che non ho saputo amare, l’astio di chi non mi ha saputo trattenere e le espressioni del perdono. Le mie sopportazioni, le vite arrivate tardi all’appuntamento e smarrite per sempre. Le vite fossili.
Una fotografia porta la data del 1999, il mio ultimo anno di liceo. Sono invitata a una festa di diciott’anni. Indosso un abito lungo, nero, le spalline di strass. Il primo ricordo nitido è lo scollamento tra me e il vestito che ho scelto. Volevo farmi notare da un ragazzo che mi piaceva.
Era tanto bello quanto diverso da me. Il suo mondo e il mio si misuravano nella distanza dalle nostre abitazioni alla scuola. La sua, cinque minuti in motorino da casa, in centro, la mia, quaranta minuti di treno extraurbano per arrivare dalla periferia. A me erano toccate le vacanze negli hotel tre stelle della costiera adriatica mentre lui passeggiava con sua madre nel Principato di Monaco. Aveva familiarità con il lusso ma non lo esibiva, era elegante ma senza sfarzo, parlava con le professoresse di ristoranti vicino al Teatro dell’Opera che io non avevo mai visto, non studiava ma riusciva, era astuto ma non calcolatore.
Quella sera, alla festa, mi ero sentita fuori posto tutto il tempo, l’entusiasmo degli invitati non mi apparteneva, li guardavo con un misto di disapprovazione e invidia. Tornai a casa ubriaca. Mia madre mi venne incontro al cancello principale. Barcollavo come si barcolla quando hai bevuto troppo per fare la gradassa e sostenere la presenza degli altri. Mi sdraiai sul letto, piansi e dissi solo: «Volevo essere bellissima». Volevo essere come lui e non lo ero.
Volevo che i miei compagni, guardandomi, vedessero qualcosa di simile a loro. Volevo che io, guardandoli, potessi vedere qualcosa di simile a me. Invece di simile non c’era niente. Fu allora, in mezzo a compagni di classe a me estranei, che capii come a determinare la diversità fosse lo sguardo altrui, che ci racconta attraverso le categorie della repulsione e del desiderio.
È per gli altri che vogliamo essere perfetti, bellissimi, desiderabili. È dagli altri che cerchiamo approvazione. È l’altro che ci vede e vedendoci ci racconta, è l’altro a suggerirci chi siamo. È lo sguardo, dunque, la gabbia?
Da quando ho la sclerosi multipla questo interrogativo combina la storia del mio corpo fin qui, la bambina mal vista, in posa, che sono stata, e gli effetti di essere trattata - da malata - con compassione, cioè il timore che la pietà possa finire per coincidere con me. Voi mi compatite, allora io posso diventare un soggetto da compatire. Come da ragazzina, sotto lo sguardo di mio padre: tu mi chiedi una posa, io mi metto in posa. Tu mi chiedi una posa perché mi vedi perfetta, allora io devo diventare perfetta. Come lo sguardo del ragazzo amato a diciott’anni. Tu non mi vedi abbastanza bella, allora io devo diventare sufficientemente bella per meritare la tua attenzione.
Quando è arrivata la sclerosi multipla nella mia vita e il corpo si è manifestato nella forma che avrà per sempre - un prototipo che non ha funzionato - ho iniziato a domandarmi cosa sia l’imperfezione dei malati negli occhi di chi guarda. E ho capito che il difetto è uno spazio inospitale.
Il malato è vulnerabile, dunque respingente, perché il guasto evoca il timore della dipendenza. Vale per gli anziani quando cominciano a portare addosso l’odore della vita al capolinea, vale per i disabili, che hanno bisogno di essere lavati, nutriti e interpretati, vale per i depressi che tingono di nero tutto quello che intorno a loro è inaggettivabile.
La malattia è un’amputazione e l’arto fantasma è l’autonomia. È questo che pensano i sani quando vedono in noi la traccia della dipendenza. Pensano: «Un giorno qualcuno dovrà prendersi cura di loro. Speriamo non tocchi a me».
Lo sguardo degli altri quando siamo malati ci tiene in ostaggio. Siamo prigionieri della pietà, della commiserazione, del difetto che può diventare principio e fine della nostra biografia.
«Lei è quella con la sclerosi multipla, poverina».
I sani hanno bisogno di misurare i guasti attraverso una sintassi che li faccia sentire vaccinati. Inscalfibili. Ci dicono poveruomo e poveraccia, e ce lo dicono sottovoce, ma non abbastanza da non essere uditi, mentre noi pensiamo di saper camminare dove non c’è pietà. I sani hanno piú paura di noi.
– Ho un gran mal di schiena, sai, Francesca, non riesco a fare le scale. – Penso che sopravvivrai, c’è gente che le scale le fa col bastone da vent’anni o che le sale col montacarichi perché è handicappato. Silenzio. – Sei cattiva.
– Che fatica con due ragazzini piccoli, sembra che sia entrato Attila, nella loro stanza, ci vorrà un’ora a rimettere in ordine. – Ritieniti fortunata a poter mettere in ordine tu. Vuol dire che puoi muovere entrambe le braccia. Pensa a chi i figli non può toccarli perché è disabile. Silenzio. – Sei ingiusta, Francesca, sei cattiva.
Tante volte mi sono sentita dire che sono spietata, da quando sono malata. La cattiveria del malato giace in questo, credo, vorresti contagiare le persone che hai intorno con quello che la malattia ti ha rivelato e portarle dove non ci sono maschere per la vergogna. Dove siamo, tutti, smascherati.
Ho accostato una foto che mi ritrae prima della malattia e una recente, di qualche mese fa. Nella prima la ruga che mi attraversa la fronte in verticale, al centro, in mezzo agli occhi, è meno accentuata, meno anche la zigrinatura di quelle ai lati degli occhi e, no, non è il tempo il delta tra quel volto e questo.
È un altro modo di sorridere che ho imparato, che mi affatica e scioglie muscoli diversi. Oggi i muscoli laterali della bocca radunano un’espressione di statica quiete, rido sempre poco, ma rido meglio. Quello che porto addosso ora è un sorriso che rivendica di essere guardato, che sceglie da chi e come, un sorriso all’ingiú, che esce di casa col vestito della festa. Un viso che sfida lo sguardo degli altri, come sfida la vergogna.
“Bianco è il colore del danno” (Einaudi Stile libero, pp. 207, € 17) di Francesca Mannocchi arriva in libreria il 2 febbraio. Prende le mosse dalla storia pubblicata in copertina dell’Espresso il 1 luglio 2018, “Io, la mia malattia e il patto spezzato”