Crisi politiche e virus hanno messo in circolo emozioni antiche: paura, rabbia, compassione. La grande studiosa americana riflette su come non subirle. E trasformarle in energia costruttiva

Docente a Harvard, Brown e Oxford, ora professoressa a Chicago, Martha Nussbaum è una delle voci più autorevoli in materia di filosofia del diritto ed etica. Tradotte in tutto il mondo, le sue opere rappresentano un punto di riferimento per lo studio della dignità umana, per la riflessione sul ruolo delle emozioni in politica, per gli studi di genere.

 

Scritto all’indomani dell’elezione di Trump, anche l’ultimo libro di Martha C. Nussbaum, “La monarchia della paura” (pubblicato da il Mulino), conserva ancora tutta la sua attualità. E oggi che il quadriennio repubblicano si è concluso, le parole di Nussbaum aiutano a comprendere le emozioni che ne hanno animato la politica e la società, ma anche ad analizzare, una volta di più, l’epoca pandemica che stiamo vivendo.

 

All’inizio della pandemia, si sono viste molte manifestazioni di solidarietà.Durante la seconda ondata, invece, l’insostenibilità dei sacrifici economici ha dato voce alla rabbia. Come spiega questo mutamento di emozioni?

«Non credo che ci siano state fasi così distinte. Penso, anzi, che fin dall’inizio la compassione generale si sia alternata alla paura egoistica e alla rabbia accusatoria. Per esempio, si è immediatamente data la colpa alla Cina per la diffusione del virus. E quando la paura ha preso il sopravvento, ci si è interessati alle proprie famiglie e ai vicini, dimenticando le persone più lontane. La paura è un’emozione che comprime gli spazi e chiude gli orizzonti. È un’emozione di autoconservazione, e costringe la mente a concentrarsi sul proprio corpo e sulle persone che ci circondano. Quando poi alla paura si aggiunge la pretesa del controllo dell’ignoto, spesso segue la rabbia. È più rassicurante sentire che si è aggrediti da una certa nazione piuttosto che sentirci in balia di qualcosa che non comprendiamo».

Come nasce e muore, invece, la compassione?

«Adam Smith diceva che quando le persone hanno notizia di un terremoto in Cina sono colme di compassione, ma se subito dopo gli viene detto che il loro mignolo sarà tagliato l’indomani, tutta la loro attenzione si concentra immediatamente sul dito. La compassione dipende dal pensiero che la sofferenza dell’altro sia significativa e seria, ma dipende anche dalla collocazione dell’altro nella propria cerchia di preoccupazioni. E la maggior parte di noi, il più delle volte, definisce la propria cerchia di preoccupazioni in maniera molto ristretta. Prendersi cura di persone lontane da noi è una conquista morale, ed è difficile da sostenere. Si tratta di un’attitudine morale che possiamo esercitare se teniamo presenti esempi vividi della sofferenza altrui. Spesso i media riportano storie di persone che in altri luoghi sono morte a causa del Covid-19 solo per mantenere viva la nostra immaginazione; e però ci si ferma ai confini nazionali. Sono poche, o forse del tutto assenti, le storie che qui ci raggiungono di persone vittime del virus in India o, all’estero, magari in Italia: forse si pensa che sostenere la compassione a livello globale sia un esercizio troppo difficile».

 

Pensa che i media siano responsabili del panico o comunque di un approccio non bilanciato su quanto è accaduto?

«A dire il vero, penso che i media abbiano svolto un lavoro piuttosto buono nel presentare i fatti al pubblico e nell’offrire alla scienza una piattaforma di espressione. Ciò di cui abbiamo bisogno non è la paura, bensì una paura ragionata. Negli Stati Uniti il problema maggiore non è il panico, ma l’indifferenza: molti sostengono ancora che non ci sia alcuna pandemia, nonostante le persone tutt’attorno muoiano. È essenzialmente questo il motivo per cui le nostre statistiche sanitarie sono così spaventosamente pessime. Se in Illinois si è fatto meglio rispetto agli stati vicini, come l’Indiana e il Wisconsin, questo è accaduto proprio grazie alle severe restrizioni e all’implacabile martellamento mediatico. Quando uno dei nostri consiglieri eletti ha inaugurato un ristorante di sua proprietà in violazione delle linee guida, è stato severamente punito con una multa salata: forse questo ispirerà una ragionevole paura, se il virus stesso non lo farà! Mi godo il notiziario locale delle 17, perché presenta i dati del virus in modo chiaro e pacato, provocando una ragionevole paura, e offrendo i pareri dei più importanti esperti di medicina. Naturalmente poi ci sono tanti altri media che diffondono teorie cospirazioniste di ogni genere, compresa l’idea che il virus sia un’invenzione o una bufala. L’ex Presidente Trump in persona sosteneva queste teorie della cospirazione, e questo rappresentava un enorme problema. È necessario che la paura sia legata alla verità».

 

Nel suo libro “La monarchia della paura”, lei scrive di strategie aggressive di proiezione della paura sull’altro. Il virus è qualcosa di completamente sconosciuto: è un elemento tattico perfetto per queste strategie di discriminazione e competizione.

«Sebbene ci sia stato un primo tentativo di addossare tutta la colpa alla Cina, non credo che i cittadini di origine cinese abbiano subito violenze o discriminazioni. Ora che stiamo parlando di vaccini, mancando una vera strategia globale, le nazioni si stanno accaparrando tutto quello che possono, e questo probabilmente sarà un problema, almeno per un po’ di tempo. A lungo termine, dato che probabilmente si avranno più vaccini efficaci, ce ne sarà abbastanza per tutti; ma in questo momento i Paesi sono in competizione tra di loro. Ogni volta che qualcosa di buono scarseggia, in assenza di alleanze chiare e di trattati duraturi, non ci si può aspettare altro che la competizione».

Come lei nota, pensare la politica come una questione puramente istituzionale è illusorio. Ma quando la politica si rivolge alle emozioni, fomenta e strumentalizza per lo più quelle negative. Cosa ci dice la sconfitta di Trump rispetto alle emozioni che circolano nella politica occidentale?

«Anzitutto una premessa che avrò ripetuto mille volte: non esiste una semplice opposizione tra emozioni e “ragione”. Le emozioni incorporano le cognizioni, ossia l’elaborazione delle informazioni, e le cognizioni riguardanti i valori, il proprio bene e il proprio male: la paura implica il pensiero di un grande pericolo che ci minaccia, la rabbia implica il pensiero dell’ingiustizia di un danno significativo a ciò a cui si tiene, e così via. Se con “irrazionale” si intende “privo di ogni pensiero”, le emozioni non sono irrazionali o opposte alla ragione. Se, invece, “irrazionale” significa “basato su pensieri inadeguati e mal fondati”, in questo senso molte emozioni possono essere dette irrazionali; ma in questo senso sono irrazionali anche molti pensieri. Una persona che ancora crede che Trump abbia vinto le elezioni, per esempio, ha una convinzione irrazionale. Un’altra opposizione molto scivolosa è quella tra emozioni “negative” ed emozioni “positive”. Se le emozioni “negative” sono quelle dolorose, fra esse dovremmo includere indistintamente la paura giustificata e quella ingiustificata; e perfino la compassione e il lutto per una persona cara, emozioni fondamentali mediante le quali esprimiamo il nostro amore. Se con “negativo”, invece, si intende “nocivo per la società”, allora è una storia molto diversa. Non è possibile classificare un’intera emozione come “negativa”; è necessario, parlando delle emozioni, essere molto più specifici. Penso per esempio che molte forme di disgusto siano sempre negative per la società, così come credo che sia sempre nociva per la società la rabbia “retributiva”, che porta a infliggere dolore in cambio del dolore subito; ma non siamo in molti a pensarla così. Per tornare comunque alla sua domanda, penso che la politica si occupi e promuova emozioni di molti tipi: amore, speranza, paura, rabbia e disgusto. È necessario interrogare la specifica emozione, e chiederci se essa sia un bene o un male per la società. Anche l’amore può essere problematico se viene promosso in una dimensione ristretta e settaria».

 

La politica populista mobilita la rabbia contro ciò che è considerato estraneo e pericoloso. Numerose manifestazioni globali, come per esempio quelle del movimento “Black Lives Matter” negli Stati Uniti, mobilitano invece la rabbia contro forze politiche disgreganti. La rabbia può essere un’emozione costruttiva?

«Vede, su questo punto è bene fare delle distinzioni. Penso che la maggior parte delle forme di rabbia sia distruttiva e non costruttiva, perché cerca di risolvere i problemi chiedendo vendetta, e questo significa solo più dolore. Come diceva Gandhi: “Occhio per occhio e il mondo diventa cieco”. C’è però una forma di rabbia che è libera dal desiderio di vendetta. È la rabbia che denuncia un oltraggio e spinge all’azione. Questa emozione conserva il senso di indignazione ma guarda avanti, cercando soluzioni invece di infliggere un dolore vendicativo. È quella che chiamo “rabbia transizionale”. Martin Luther King parlava di questo quando affermava che la rabbia delle persone nel suo movimento doveva essere “purificata” prima di poter essere socialmente costruttiva».

 

Spesso la violenza è il modo in cui si rivendica uguaglianza. Nello scenario globale attuale, invece, l’uguaglianza è raggiunta attraverso l’annacquamento delle differenze, mentre le richieste di riconoscimento sono soddisfatte dai nazionalismi. Lo Stato è ancora la dimensione verso cui indirizzare le rivendicazioni della democrazia?

«Credo che lo Stato-nazione abbia ancora un grande significato morale, per le ragioni che Grozio ha dichiarato già nel XVII secolo: lo Stato-nazione è l’unità più grande a noi nota responsabile nei confronti delle persone e capace di esprimere la loro autonomia nella forma dell’autolegislazione. Si conoscono accordi transnazionali e associazioni di vario tipo, ma nessuna è realmente tenuta a rispondere davanti a un popolo. Quindi, per quanto io pensi che gli accordi sui diritti umani abbiano un grande valore simbolico ed educativo, il vero lavoro deve essere svolto attraverso la legge a livello nazionale: non ci vedo nulla di negativo. Credo che l’aspirazione a uno Stato mondiale abbia poco senso, e avendo lavorato all’Onu posso dirvi che lì non funziona. La stessa Ue non ha piena “accountability” politica, responsabilità, nei confronti dei suoi cittadini. E penso che il suo futuro sia poco chiaro: o diventerà più responsabile, nel qual caso sarà una grande nazione federata come l’India o gli Stati Uniti; oppure rimarrà un insieme di relazioni che non esprimono adeguatamente la voce della cittadinanza. Il problema è che si è data priorità all’unità economica e non all’unità politica, e per questo molti si sentono esclusi e senza voce. In ogni caso, penso che il futuro sia con le nazioni. Ci sono parti significative del mondo che non sono di proprietà di alcuna nazione: le profondità marine e gran parte dell’aria. Perciò abbiamo bisogno di trattati e accordi transnazionali per proteggere le creature che vivono nei mari e tutti noi che respiriamo l’aria. Ma, come dimostra la storia della Commissione internazionale per la caccia alle balene, questi trattati sono inutili se non si forma prima una politica a livello nazionale».