Gli errori degli scienziati nella nostra storia sono stati tanti. Eppure, come spiega da Harvard una docente, il “carattere sociale” della ricerca deve spingerci a fidarci

«Gli scienziati non sono sempre stati dalla parte giusta». La storica della scienza americana Naomi Oreskes lo afferma senza mezzi termini. «Scienziati intelligenti, solerti e benintenzionati sono giunti in passato a conclusioni che oggi giudichiamo erronee. Hanno permesso a rozzi pregiudizi sociali di infiltrarsi nel pensiero scientifico… Hanno fatto del metodo un feticcio. E sono riusciti a convincere i loro colleghi ad assumere posizioni che, a posteriori, ci appaiono errate, immorali o entrambe le cose».

 

Tra i tanti errori citati dalla docente della Harvard University in “Perché fidarsi della scienza?” (Bollati Boringhieri, trad. di Bianca Bertola) basterebbe prenderne in considerazione un paio. Prendiamo la «teoria dell’energia limitata» dello scienziato Edward Clarke dedotta dalla prima legge della termodinamica, secondo cui la quantità totale di energia in qualsiasi sistema chiuso rimane costante. Dopo una ricerca su sette donne Clarke arrivò alla conclusione che «l’energia consumata da un organo sarebbe stata sottratta necessariamente a un altro organo» e che studiare avrebbe danneggiato l’apparato riproduttivo delle donne, sottraendogli energia.

 

Rischiosissimo per le donne accedere a un sistema d’istruzione superiore ideato per gli uomini, dunque, e ancora più rischioso per la società, con il conseguente calo delle nascite, l’abbandono della vita domestica, il prevalere di una «razza portata avanti dalle classi inferiori», scriveva Clarke in Sex Education (1873), libro che vantò 19 edizioni e, nei 30 anni successivi, la stampa di più di 12.000 copie. Un successo non scalfito dagli studi saldamente antitetici della dottoressa Mary Putnam Jacobi, che già nel 1877 pubblicava i risultati di una ricerca condotta su ben 268 donne «diverse per salute, istruzione e posizione professionale», ottenendo sì il prestigioso Boylston Medical Prize di Harvard, ma non il riconoscimento unanime della comunità scientifica prevalentemente maschile.


Le conseguenze catastrofiche dell’eugenetica nella Germania nazista della purezza della razza sono note. Meno noto è quel che accadde negli Stati Uniti. Anche in questo caso si trattava dell’applicazione di una teoria nata in altro ambito (biologico) ai problemi della società: la selezione naturale di Darwin quale fondamento dell’evoluzione. Il determinismo genetico che attribuiva all’ereditarietà prostituzione, alcolismo, disoccupazione, «debolezza» mentale, la tendenza alla criminalità portò 32 Stati americani ad approvare leggi sulla sterilizzazione, eseguita su almeno 30mila individui, molti dei quali disabili. La paura del «suicidio della razza» alimentata da un eugenetista convinto come Madison Grant giunse a ispirare nel 1924 la restrizione dell’immigrazione su base eugenetica, quell’Immigration Restriction Act che colpì ebrei, immigrati dell’Europa meridionale, neri, chiunque attentasse alla «razza nordica». Né il dissenso di scienziati sociali che evidenziarono l’errore di attribuire comportamenti complessi solo all’ereditarietà genetica e non a cause come malnutrizione, scarsa istruzione, povertà, né gli studi degli scienziati socialisti che vedevano nel miglioramento delle condizioni sociali del mondo la possibilità di migliorare la qualità della popolazione trovarono l’eco adeguata perché risultasse evidente la debolezza di una teoria che oltretutto cercava conferme soltanto in categorie prestabilite: immigrati negli Stati Uniti e classe operaia nel Regno Unito.


Proprio le conseguenze macroscopiche dell’eugenetica costituiscono oggi gli argomenti più diffusi tra quanti contestano le conclusioni scientifiche su vaccini, evoluzione e cambiamento climatico. Se la storia della scienza è scandita da fallimenti, oltre che da successi, se il sogno del pensiero positivo ottocentesco fondato sulla fiducia incondizionata nel metodo sperimentale è stato dichiarato finito dagli stessi scienziati (Paul Feyerabend “Contro il metodo”, 1975), se le verità della scienza possono essere rivoluzionate da nuove scoperte, allora “Perché avere fiducia nella scienza?”.

 

La risposta non sta in un principio d’autorità (la scienza è la scienza). Non sta nell’infallibilità di un metodo. Non sta nell’intelletto straordinario di individui come Galileo, Darwin, Newton, Einstein che «per forza di cose, immettono nel lavoro una serie di pregiudizi, valori e presupposti di partenza». Sta in alcuni aspetti che hanno a che vedere con il suo «carattere sociale».

 

Prima tra tutte, la valutazione critica collettiva, cioè quei processi di revisione e correzione che portano al consenso scientifico. Gli scienziati non lavorano da soli, ma in comunità, condividono teorie sulla realtà empirica, sottopongono le affermazioni a uno scrutinio rigoroso (come le peer review, revisioni tra pari, che accreditano la solidità dei risultati prima di una pubblicazione scientifica). Ma neanche questo basta alla comunità scientifica per approssimarsi all’oggettività.

 

La questione è stata sollevata già negli anni Sessanta dalle scienziate femministe. «Come ha potuto la scienza sostenere di essere oggettiva, quando ha ampiamente escluso metà della popolazione dalle fila dei suoi professionisti? Come ha potuto sostenere di produrre conoscenza disinteressata, quando così tante delle sue teorie incorporavano pregiudizi sociali evidenti relativi non soltanto al genere ma anche alla razza, alla classe e all’appartenenza etnica?» Questo si sono chieste scienziate come Sandra Harding ed Helen Longino.

 

L’approssimarsi all’oggettività della scienza è dunque un traguardo sociale, una conquista collettiva tanto più fondata quanto più espressione di una comunità autocritica, aperta a nuove idee, capace di contemplare punti di vista ed esistenze eterogenei. Spiega l’autrice: «Una comunità con valori diversificati individuerà e contrasterà più facilmente le credenze pregiudiziali incorporate nelle teorie scientifiche». E il riferimento ai valori finisce per travolgere la presunta neutralità della scienza.

 

Il conflitto sulla questione climatica è fondato sui valori, spiega Oreskes. Le teorie accreditate sul cambiamento climatico sono contrastate perché attentando a uno stile di vita fondato sul consumo mettono in discussione un intero sistema economico. E allora la scienza metta in campo i valori: la salvaguardia della natura, la giustizia. Cosa c’è in gioco se si sbaglia? «Avremo creato un mondo migliore per niente».