Stampa e politica
Mezzo secolo dalla parte del torto. I cinquant’anni del Manifesto
Lo scisma dal partito comunista diede vita alla rivista e poi al quotidiano. Doveva essere un movimento per cambiare la sinistra. E invece un gruppo straordinario inventò un nuovo modo di fare giornalismo
Da mezzo secolo ogni mattina, contraddicendo le leggi della natura - come il calabrone le cui piccole ali non potrebbero reggere il peso del corpo eppure vola - un quotidiano senza padroni, una particolarissima forma della politica nelle vesti di un giornale, offre al mondo il suo punto di vista critico, programmaticamente «dalla parte del torto». Il prossimo 28 aprile "il manifesto compie 50 anni: «Avrei voluto fare una grande festa, ma in questo clima di tragica pandemia festeggiare è semplicemente impossibile. Tuttavia, cercheremo di offrire ai lettori una storia a puntate dei nostri 50 anni e altre belle sorprese da far vivere sul nostro sito, l'altra fondamentale costola della nostra impresa, insieme al giornale di carta. Naturalmente con il cuore e la testa rivolti ai prossimi 50», dice la direttora Norma Rangeri, con il suo bel caschetto di capelli neri a incorniciare un viso uguale a quello della ragazza che 50 anni fa per la prima volta varcò le porte del mitico Quinto Piano di via Tomacelli 146, dove aveva sede la redazione del giornale.
«Ho incontrato "il manifesto" come gruppo politico tra il '71 e il '72, alla facoltà di Lettere e Filosofia della Sapienza, a Roma. Per fare la tesi con Lucio Colletti avrei dovuto sapere il tedesco e per emanciparmi dalla famiglia avrei dovuto fare qualche lavoretto. Così capitò che una mia cara amica che lavorava alla segretaria di redazione del "manifesto", mi trovò un posticino nella postazione dei dimafoni dove arrivavano gli articoli dei corrispondenti, a braccio o registrati, che trascrivevo diligentemente a macchina con carta copiativa per i caporedattori. E presto il quinto piano di via Tomacelli diventò più importante dell'università, al punto che pur avendo finito gli esami rinunciai a fare la tesi e a laurearmi per la disperazione della mia famiglia. Era successo che avevo incontrato un'altra famiglia, quella di Luigi Pintor, Lucio Magri, Rossana Rossanda, Luciana Castellina, Valentino Parlato, Aldo Natoli, Lidia Menapace».
Nel primo numero del giornale, disegnato da Giulio Trevisani, allievo di Albe Steiner, con una grafica essenziale, tutte colonne di piombo, senza foto, ma elegante e sobria, si delineano già quelli che saranno i contenuti del giornale: attenzione alle lotte operaie, al movimento studentesco, grande apertura al mondo, molto interesse per tutto ciò che si muoveva fuori dall'orbita sovietica (da qui l'attenzione alla Cina e la disattenzione per l'aspetto oscuro e i crimini della rivoluzione culturale), poi, via via, nel corso dei mesi e degli anni successivi, l'incontro con il femminismo, l'ambientalismo, i diritti civili, i nuovi canali dell'immaginario collettivo. L'apertura era di Ninetta Zandegiacomi: «Dai 200.000 della Fiat riparte oggi la lotta operaia», e poi un reportage dalla Cina di un grande reporter che avrei in seguito conosciuto da vicino, K.S. Karol, compagno di Rossana Rossanda, egli stesso una leggenda vivente: polacco di nascita, un occhio di vetro e l‘altro di un azzurro vivo, capelli bianchi e impermeabile alla Philip Marlowe, da ragazzo era stato nell'Armata Rossa, un apolide ribelle che scriveva come un Dio, dietro il fumo delle sue Gitanes senza filtro.
Un giornale militante, com'è scritto nel suo atto di nascita e nelle biografie dei fondatori, un gruppo di dirigenti e intellettuali comunisti riuniti attorno al leader della sinistra Pietro Ingrao, dal quale furono costretti a separarsi nel 1969, quando furono radiati dal Pci dopo la pubblicazione della rivista "Il Manifesto", nata all'indomani dell'invasione sovietica della Cecoslovacchia. Eccoli: Rossana Rossanda, bellezza diafana e intelligenza raffinata, responsabile della commissione culturale; Luigi Pintor (fratello di Giaime, precocissimo intellettuale morto mentre cercava di attraversare le linee tedesche per unirsi alla resistenza italiana), giovane partigiano dei gap romani, gigante del giornalismo comunista; Luciana Castellina, dirigente dell'Unione Donne Italiane, giornalista militante, bellezza mediterranea statuaria e conturbante; Lucio Magri (che diventerà il compagno di Luciana) ex-democristiano, una delle teste più raffinate del gruppo, bello come un divo del cinema, con i capelli precocemente imbiancati e gli occhi azzurrissimi. Poi c'è Valentino Parlato, giovane e brillante economista espulso dalla Libia dagli inglesi perché comunista, che lavora alla commissione economica con Giorgio Amendola. Ci sono anche leader meno giovani: Aldo Natoli, medico, leader dei comunisti romani, che denuncia gli scandali della capitale e ispira l'inchiesta dell'Espresso: "Capitale Corrotta, Nazione Infetta"; Massimo Caprara, napoletano, già segretario personale del Migliore, come nel Pci veniva chiamato Togliatti.
Nel primo numero il direttore Pintor scrive: «È aperta nel nostro paese una partita dal cui esito può dipendere la sorte del movimento operaio…se non fosse questa la nostra convinzione, non ci saremmo impegnati in un lavoro e in una lotta che hanno per scopo ultimo la formazione di una nuova forza politica unitaria della sinistra di classe. E non faremmo ora, questo giornale». Tale, dunque, l'avevano pensato i suoi fondatori, ma le cose non andarono così e questo nodo si è spesso intricato producendo dolorose discussioni e divisioni, tra chi privilegiava la "forma giornale" e chi la "forma partito", ma il calabrone ha testardamente continuato a volare. «I cenacoli intellettuali finiscono tutti male - mi ha raccontato Luciana Castellina due anni fa, per i 50 anni della rivista - . Noi non volevamo fare gli intellettuali, volevamo fare una battaglia politica».
«Un giornale - dice oggi la direttora Rangeri - per vivere ha bisogno di un ragione sociale, deve rappresentare idee, bisogni, persone, deve avere, come si dice oggi, una vera community. Questo Dna "il manifesto" ancora ce l'ha, altrimenti non avremmo superato la micidiale prova dell'amministrazione controllata dopo il drammatico fallimento della cooperativa, fondandone una nuova e in salute. Altri giornali, che in questo mezzo secolo hanno provato la titanica impresa di un quotidiano nazionale sono via via tutti morti della stessa malattia: l'improvvisazione verniciata di glamour, insomma sotto il vestito niente».
Il manifesto, ha detto lo scrittore Erri De Luca, fu «uno Scisma» nella chiesa comunista e dunque fece subito paura all'apparato comunista che lanciò una scellerata campagna stalinista all'insegna del "Chi li paga?". Per sfortuna di quei grigi burocrati una straordinaria congiunzione astrale determinò l'incontro di quel gruppo di intellettuali con il movimento del '68 dal quale nacque il quotidiano. «Siamo stati anche chiamati cattivi maestri, ma non ci hanno fatto tacere. Sui figli degli anni '70, torti e ragioni e speranze e ferite e dolore di un decennio senza confronti, "il manifesto" ha potuto stendere l'esile mantello che da quel lontano '69 si era conquistato», ha raccontato Rossana Rossanda.
Giunto quasi alla conclusione sarei insincero se non vi dicessi (per citare un famoso incipit di Pietro Ingrao) che io che vi sto raccontando questa storia ne ho fatto parte per 23 anni, prima come giovanissimo militante del gruppo politico, poi come giornalista. Dal 1970 al 1993 "il manifesto è stato la mia casa: vi sono entrato che ero un adolescente, ne sono uscito che ero diventato un giovane uomo. Lo dico per avvertirvi che la mia è una ricostruzione di parte, pur senza alterare nulla dei fatti che vi sto raccontando. Il mio primo approccio con il quotidiano comunista è del 28 aprile del 1971, quando uscì il primo numero che diffusi nella mia scuola.
Avevo appena compiuto sedici anni. Allora non c'erano Internet, Wikipedia, non c'erano le news ventiquattr'ore su ventiquattro, si imparava sul campo. Appena arrivato in redazione, nel 1980, ero un po' presuntuosetto e Michelangelo Notarianni, allora condirettore, se non ricordo male, mi mise a scrivere le brevi. Dopo un po', alle mie prime inchieste, Valentino Parlato mi insegnò il metodo : «Raccogli le idee, fai una scaletta e, soprattutto, consuma la suola delle scarpe». Rossana stava nella sua stanza in fondo al corridoio a sinistra, avvolta in una penombra carismatica e circondata dai suoi libri, che t'intimidivi solo a entrarci. In fondo, a destra, invece, c'era la stanza di Luigi Pintor, inarrivabile maestro di scrittura. Non volle mai imparare a usare il computer, sedeva davanti alla sua vecchia Olivetti meccanica e batteva sui tasti con lentezza esasperante: tic…toc…tic…toc. Ne uscivano editoriali brevi e limpidi, acuminati come frecce. «In trenta righe si può raccontare la Divina Commedia», ci diceva. Era inoltre uno straordinario titolista: malgrado la sua idiosincrasia per le tecnologie era già perfetto per Twitter!
Per tutti coloro che vi sono passati, dunque, pur se poi dispersi ovunque, "il manifesto" è stato un vero e proprio romanzo di formazione. Lavoravi in un giornale nel quale, cito alla rinfusa, scrivevano Umberto Eco, Federico Caffè, Stefano Rodotà, Manuel Vazquez Montalban, Dacia Maraini e che pubblicava interviste a Jane Fonda, Salvador Allende, Jean Paul Sartre, Otelo De Carvalho.
La storia del "manifesto", sostiene Tommaso Di Francesco, condirettore, può anche essere narrata come una storia di rabdomanti, ovvero «instancabili cercatori d'acqua, in ogni luogo, nelle condizioni più avverse, senza strumenti o con mezzi di fortuna, se non magici!». Lo scrive in un libro di versi ("I Rabdomanti", edito dalla manifestolibri), dedicati ai fondatori, che qui appaiono al tempo stesso nell'aura del mito e nella loro profonda umanità, eroi inattuali e tragici.
Come Lucio Magri, già compagno di Luciana Castellina, morto suicida nel 2011, assistito da Rossana Rossanda. A lui Di Francesco dedica questi versi: «Troppo tardi e troppo presto/facevi strada noncurante del buio/tuo, della perdizione la voragine». Ecco Pintor: «Non eri turista o cittadino, ma infiltrato/certo solo della condanna che attiene/dell'andare a capo e lasciare il bianco sprecato, tutto, come se davvero esistano/scrittura e misura a comandare calendari/quell'ostinato pudore, il volo necessario»; Rossanda, immortalata mentre affascina i giovani militari della rivoluzione dei garofani in Portogallo: «Sarà stato maggio, chiusura di stagione/e lei sulla scena simile ad un candido/elefante, sibilando contendeva al mondo/il barbuto drappello di guardie stanche», e Valentino Parlato, il tripolino, i suoi amori e figli: «Sei l'aviatore che vola da solo/radente di notte perdendo/dalla carlinga piccoli principi».