Fu costruita per sfruttare le ricchezze del sottosuolo. E popolata grazie ai campi di lavoro forzato. Molti ex detenuti però sono rimasti ad abitare lì

Era il cinque dicembre dell’anno 1947, quando il vaporetto Kim approdò nella Baia di Nagaev, a Magadan. A bordo i detenuti si ribellarono. In tremila vennero sommersi dai gettiti di acqua delle guardie armate. È una delle storie che narra Varlam Šalamov, scrittore russo, fra i più grandi del Novecento, autore di “I racconti di Kolyma”, un libro che dà conto dei suoi diciotto anni di prigionia nell’estremo Nord della Russia, ma che, analogamente all’opera di Primo Levi, non è testimonianza ma letteratura che si interroga sulle cose prime e ultime degli esseri umani. Ci torneremo.

Magadan venne fondata nel 1929. Qualcuno parlò di una “piccola San Pietroburgo” o meglio Leningrado, per via di qualche bell’edificio. In realtà si trattava di un progetto titanico di sfruttamento delle risorse naturali disponibili in una zona impervia grande una volta e mezzo il Giappone. Da quelle parti, dicevano i geologi sovietici, c’era oro, uranio e tanti minerali necessari per la gloria della patria e la vittoria del comunismo.

Il problema era come attrarre la gente ad abitare in luogo dove l’estate (si fa per dire) dura due mesi e d’inverno le temperature scendono a 38 gradi sotto lo zero e qualche volta arrivano a meno cinquanta. La soluzione fu trovata con facilità: costruendo un sistema di schiavitù, una rete di lager in cui i deportati avrebbero lavorato gratuitamente, fino alla fine delle loro forze, puniti in caso di scarsa produttività e perennemente affamati. Quel sistema ebbe il nome di gulag e la sua capitale simbolica può essere considerata appunto Magadan. Talvolta al posto del nome della città si nomina il fiume Kolyma. Ecco: Magadan e Kolyma, sono la metonimia del gulag, l’orrore dello stalinismo, segno della trasformazione di un’utopia nella radicale distopia.

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Oggi a Magadan abitano poco più di novantamila persone. Molti sono figli o nipoti degli ex prigionieri, gli “zek”, così chiamati nel gergo burocratico dei lager russi, altri invece sono discendenti dei guardiani. La strada che dalla città porta fino a Yakutsk, nella regione della Yakutia, in Siberia, è lunga circa duemila chilometri ed è anche denominata la “strada delle ossa”. Fu costruita dai prigionieri con attrezzature rudimentali: molti morivano di stenti e fatica. I cadaveri venivano gettati nelle fosse comuni, proprio lì dove ora passano i camion. E del resto, si racconta di un proprietario di una miniera d’oro, sempre dalle parti di Magadan, che un giorno, durante gli scavi fatti dai suoi operai, scoprì una montagna di ossa umane.

Racconti macabri? Sì. Ma le storie rendono evidente una certa, chiamiamola spontaneità, nella vita e nei modi di dare la morte nell’universo concentrazionario sovietico. Ne citiamo uno.  Una ex detenuta raccontava in un filmato, come, ai tempi, vide un uomo sporgersi oltre il filo spinato. Una guardia gli sparò. Il cadavere restò là, finché non se lo portò via un orso. Detto con  brutalità, quel modo di procedere, caotico e senza una vera sepoltura  ha fatto sì che pure le statistiche  delle vittime sono approssimative e variano a seconda dei parametri usati dai ricercatori. Possiamo dire grosso modo che il numero dei detenuti in tutto il sistema dei Gulag è stato di circa 18milioni e fino a 20 milioni  e non ci avventureremo nelle ulteriori spiegazioni. Ne parla comunque Anne Applebaum in “Gulag. Storia dei campi di concentramento sovietici” (Mondadori).

Oggi a Magadan la memoria è materializzata in un monumento. L’aveva progettato lo scultore Ernst Neizvestnyj, scomparso cinque anni fa all’età di 91 anni negli Stati Uniti. Si tratta di una storia che riassume la vicenda dell’Unione sovietica. Militare dell’Armata rossa, nell’aprile 1945 Neizvestnyj fu ferito e dichiarato morto, tanto che la madre ricevette la medaglia “postuma”. Guarì invece, diventò artista importante finché nel 1962 la sua arte venne paragonata dall’allora segretario del partito Nikita Kruscev agli escrementi di una mucca. Emigrò quindi negli States.

Ecco, nel 1996 Neizvestnyj costruì a Magadan “La maschera del rimorso”, un monumento a forma di maschera, appunto, alto quindici metri. Sembrava l’inizio di una presa di coscienza collettiva su cose sia stato il comunismo sovietico. Ma poi qualcosa si è inceppato, Vladimir Putin decise di ricostruire il pensiero imperiale, tanto che oggi stando ai sondaggi tre russi su quattro hanno un buon ricordo dell’Urss.

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Ci sono molti film girati in Russia su Magadan, Kolyma, e su coloro che qui sono stati imprigionati. In uno di questi si parla di un detenuto celebre, Sergej Korolev. Korolev è stato il padre dei razzi che portarono gli Sputnik e i Vostok in orbita fra fine anni Cinquanta e primi Sessanta. Finì in Kolyma nel corso delle purghe delle forze armate nel 1938. Dopo aver lavorato nella miniera d’oro, venne traferito in una “sharashka”, un campo di quelli speciali descritti da Aleksandr Solzenicyn, destinati agli scienziati di cui il regime aveva necessità. In un filmato sua figlia dice: «Stalin ha fatto più male che bene. Però». E riconosce al tiranno un certo coraggio, durante la guerra.

In altri filmati, persone che abitano a Magadan, nel cuore dei luoghi della morte e delle atrocità, ricordano come, sempre durante la guerra, i soldati morissero sul fronte con il nome di Stalin sulla bocca. E ancora, in uno stupendo reportage girato nel 1994 dall’olandese Theo Uitensbogaard, viene data la voce a Vadim Kozin. Kozin in Russia è una leggenda. È stato il più famoso cantante degli anni Trenta e primi Quaranta. Veniva invitato al Cremlino, e nel filmato racconta come cantava non solo per, ma insieme a Stalin. Momenti di divertimento, di sintonia fra un artista e il tiranno.

Nel 1944 lo arrestarono. Per quale motivo? Lui cita una conversazione con il capo del Nkvd Beria che lo rimproverava di non cantare canzoni su Lenin. Probabilmente finì nel Lager dalle parti di Magadan perché era omosessuale. Dopo sei anni lo liberarono. Ma lui aveva deciso di restare in quella città per sempre. Non solo lui. La popolazione diminuisce, le orrende palazzine sono in stato di abbandono ma moltissimi ex prigionieri ed ex guardie non hanno voluto andarsene via, nonostante il clima, il buio, la miseria.

Il cantante Kozin ricordava Stalin con tenerezza. In un altro reportage, però, realizzato nel 2016 da un regista tedesco, è centrale la versione di una ex prigioniera, Antonia Novosad, anche lei rimasta a Magadan. Novosad ha l’aria di una signora intelligente, ha occhi vivaci ed eloquio riflessivo. Racconta la sensazione di fame. La paura. Narra di come sia arrivata con le compagne detenute in città, dopo giorni di navigazione su un piroscafo, simile al Kim, citato da Šalamov, o forse lo stesso. Una volta sbarcate, le donne sono condotte al lager. Per prima cosa vengono portate al bagno. Ordinano loro di spogliarsi nude, davanti agli uomini. Segue il taglio di capelli, la depilazione.

La signora Novosad, nella sua modestissima abitazione, seduta a un tavolo guarda dritto la telecamera ed esprime un desiderio: «Voglio che la mia storia venga rammentata fra cento e duecento anni». Ma che cosa ricorda? Bene, rendiamo la cosa esplicita. Nello stesso filmato, un’altra donna anziana, parla delle torture subite e dice: «Siamo stati torturati con metodi fascisti».

Poi descrive i supplizi in modo dettagliato (ne citiamo uno solo: stare nuda per 24 ore in una cella gelata, una sfida alla morte). Certo, nei lager di Kolyma non c’erano camere a gas. Soprattutto, a differenza da quelli nazisti, i guardiani non appartenevano a un’altra umanità, non erano superuomini, potevano diventare loro stessi detenuti. Fra i prigionieri molti erano ex capi e alti funzionari dei servizi di sicurezza, a loro volta vittime delle “purghe” dopo essere stati carnefici.

Lo racconta Evgenija Ginzburg in un altro libro, “Viaggio nella vertigine”, pubblicato negli anni Sessanta in Occidente. Criticato da Šalamov in quanto «troppo romantico», non amato da Nadezda Mandelstam, la vedova del grande poeta morto da queste parti, il testo in realtà restituisce il clima dell’epoca e lo stato d’animo di una giovane docente di letteratura russa all’Università di Kazan, fervente comunista, vittima delle purghe di Stalin e che ritrova l’uomo che la portò in carcere, prigioniero nello stesso lager.

Dalle parti di Magadan, con altre donne taglia i boschi, patisce la fame, assiste alle fucilazioni. Ma non si arrende, e se può apparire ingenua la sua voglia di trovare la bellezza ovunque è un’ingenuità toccante e lodevole. Continua a recitare a memoria “Evgenij Onegin”, il capolavoro di Puskin. E si innamora del dottore del lager. Quell’amore le ridarà la vita.

Šalamov nell’amore credeva poco. Per lui, il gulag era una situazione estrema, al limite del nichilismo. Nel lager, diceva, tutti diventiamo delle bestie. In una annotazione in apparenza marginale ma centrale, cita il caso di un medico, con l’esperienza del lavoro al fronte durante la guerra. E dice che neanche quell’esperienza l’aveva preparato a ciò che avrebbe visto nel gulag. Aggiungeva che, a diciassette anni dall’evento che l’aveva sconvolto (l’approdo della nave Kim, appunto), quello stesso chirurgo non se lo ricordava più.

A noi, oltre ai libri citati, restano le foto del reportage in queste pagine. Il vuoto che si insinua nel paesaggio, nelle abitazioni disadorne, nella gamma cromatica. Una drammatica testimonianza del fallimento di un’utopia rivelatasi miseria. Ma le persone? Per loro, quel luogo è vita, nonostante tutto.