Arabopolis
Il musicista italoegiziano gira le scuole raccontando storia, trucchi e potenzialità del genere musicale che gli ha cambiato la vita. Il legame con la cultura nera americana. E le radici arabe riscoperte grazie a Timbaland. Dalla newsletter de L’Espresso sulla galassia della cultura araba
di Angiola Codacci-Pisanelli
A vent'anni anni Amir Issaa era un ragazzo di Roma che costruiva la sua strada rappando la vita quotidiana del suo quartiere, Torpignattara. Oggi è un artista affermato che gira scuole e carceri insegnando quello che vent'anni di rap hanno insegnato a lui: ritmo e melodie, rime e metafore, ma anche i legami con la musica nera americana. E soprattutto, lo stile giusto per raccontare sogni e problemi di una generazione multietnica, trascurata dalla politica italiana ma interessante per il resto del mondo. Tanto che diverse università americane hanno invitato Issaa a raccontare l'Italia di oggi.
ISCRIVITI ALLA NEWSLETTER GRATUITA ARABOPOLIS
Dopo anni di rap, dopo canzoni famose come “Scialla”, “Non sono un immigrato” e “Questa è Roma”, dopo il memoir “Vivo per questo”, ora Issaa firma il libro “Educazione rap” (edizioni Add), che unisce autobiografia a storia e tecnica del genere nato negli Usa e vivissimo in tante varianti in tutto il mondo. Il libro inizia con uno dei giorni più emozionanti della vita dell'autore: quando ha portato una “lezione di rap” nel liceo in cui studia suo figlio. E finisce con una postfazione di Flavia Trupia, esperta di retorica che insegna a conoscere e usare figure che si imparano traducendo Cicerone ma sono utili anche per chi fa rap.
Lei scrive che il rap le ha insegnato a usare meglio la lingua italiana: nei suoi incontri con gli studenti ha l’impressione che funzioni anche per loro?
«Assolutamente: è quello che io racconto nel libro ed è efficace perché per i ragazzi è il loro linguaggio. Quando vado nelle scuole io racconto la mia testimonianza e parlo con i ragazzi con un linguaggio che è quello del rap. Questo per loro è affascinante perché ogni giorno ascoltano canzoni di questo genere. Quando io arrivo a scuola, loro si trovano davanti qualcuno che fa quel tipo di muisca da tanti anni e che può trasmettergli la sua esperienza sui contenuti dei suoi testi ma anche sulla tecnica, su come si costruisce un testo rap».
In un mondo globalizzato, il rap (almeno quello italiano) è locale: rap romano a Roma, milanesi a Milano… Mi spiega questo paradosso? Non rischia di chiudere musicisti e ascoltatori in una nicchia autoreferenziale?
«Il rap è un genere musicale ormai diffuso su scala mondiale ma ogni rapper ci tiene a rappresentare il suo quartiere, la sua zona, la sua città. Quando ho iniziato, ho ascoltato una canzone come quella di Nas “New York state of mind” e il mio sogno era di scriverne una per la mia città, come ho fatto poi con “Questa è Roma”. Ogni rapper fa parte di una comunità che è la comunità hip hop ma lui rappresenta il suo luogo di provenienza: ci tiene a dire “io vengo da questa città, dalla scena di questa città”. Ognuno ci tiene a rappresentare e a elevare la città da cui viene. In questo c'è anche un po' di sana competizione, quindi la scena di Roma ci terrà a competere con la scena dei rapper di Milano ma questa è una cosa positiva, ci stimola. E si collabora: è normalissimo sentire una canzone di un rapper di Milano che fa un featuring o una collaborazione con uno di Roma. Però ognuno di noi ci tiene a rappresentare la città, anzi il quartiere da cui proviene».
La musica egiziana ha una grandissima tradizione e grandi divi d’attualità. Lei ne è stato influenzato da bambino, o ha voluto scoprirla da adulto, o nessuno dei due?
«Non sono mai stato un conoscitore profondo di musica egiziana. Probabilmente mio papà la ascoltava quando ero piccolo in casa e quindi è dentro di me, con i suoi ritmi. Però devo dire che c'è un aneddoto legato a questo, che mi sembra molto divertente. Nel 2006 io avevo realizzato un disco da indipendente che poi è uscito con la Virgin Records, “Uomo di prestigio”. Lì dentro ci sono canzoni come “Notti arabe” o “Shimi” che hanno sonorità arabe, chiaramente orientali. Io però le avevo fatte perché ero ispirato dal rap americano. In quel momento in America c'era il produttore Timbaland che con Missy Elliot aveva realizzato un sound molto orientaleggiante, erano dei beat hiphop con suoi orientali. Io mi ero ispirato a loro. Quando il mio disco è arrivato alla Virgin ovviamente la casa discografica ha detto “Amir, sei riuscito a fondere rap e sonorità orientali”: ma in realtà l'ispirazione non era venuta dalle mie “radici arabe” ma dal rap americano».
Sente una differenza rispetto ad artisti italiani che hanno radici arabo-islamiche diverse dalle sue?
«C'è una grande differenza tra un rapper che nasce qui in Italia, vive sempre qui anche se ha genitori che sono venuti da un altro paese, rispetto a chi è cresciuto in un'altra cultura, viene qui in Italia già adulto o adolescente e racconta la sua storia alla sua comunità, dando voce alla comunità di provenienza. Va fatta questa differenza perché io che sono nato in Italia e ho sempre vissuto qui ho visto che il mio pubblico di riferimento era il pubblico del rap italiano, ho raccontato la mia storia alla società italiana. Immagino che se c'è un altro rapper di origine albanese o jugoslava o araba che è cresciuto lì ed è venuto in Italia da adulto ci tenga a marcare questa differenza. Oggi è sotto gli occhi di tutti che c'è una nuova scena rap italiana che è multiculturale. Ma là dentro c'è chi come me si sente pienamente italiano e racconta la sua storia, e chi invece magari vive in casa le due culture, la cultura di provenienza e quella italiana, e la marca ancora di più mettendoci magari parole in arabo o in un'altra lingua, raccontando la vita che ha fatto nel paese d'origine. Io non sono uno di quei ragazzi che ogni estate andavano a trovare i parenti in Egitto: ci sono arrivato solo da adulto, quindi la mia storia è diversa».
Nel libro parla della sua esperienza negli Usa. L’impressione è che all’estero trovino più interessanti gli artisti italiani che hanno radici multietniche. Lei però scrive che si aspettavano comunque da lei racconti da “Vacanze romane”. Com’è finita?
«Va detto che in America sono molto interessati all'Italia contemporanea e a quello che sta succedendo con il cambiamento delle seconde generazioni e dei figli degli immigrati. Ma c'è una forte tradizione italiana negli Stati Uniti perché ci sono stati tanti migranti, tanti italiani che hanno lasciato l'Italia e sono andati a vivere lì. Quindi quando mi siedo in un'università americana, so che posso avere davanti un ragazzo che ha parenti italiani ma non è mai stato in Italia e l'ha conosciuta attraverso racconti o film, e quindi ha un'idea molto stereotipata del Paese. Ma ce ne sono molti altri che studiano l'Italia perché sono appassionati, non perché hanno parenti, e forse ogni anno riescono a fare un viaggio di studio per venire in Italia e vedere come si vive: loro sono più aggiornati. Ci sono situazioni diverse, ma posso dire con certezza e anche con un certo orgoglio che già nel 2006 le mie prime canzoni in cui raccontavo le seconde generazioni, come “Straniero nella mia nazione”, erano state incluse in alcune tesi di laurea nelle università americane. Va detto che nei corsi di italianistica e di cultura italiana in America il docente sa che in Italia le cose stanno cambiando e ci tiene tantissimo a trasmettere ai ragazzi un'idea non stereotipata del Paese. Poi la realtà è che dipende chi ti trovi davanti. Com'è finita nel mio caso? È finita che quando gli studenti americani sono venuti a Roma li ho portati a Torpignattara e gli ho fatto vedere un'altra Roma, una Roma che loro non conoscevano, e ne sono rimasti affascinati. E magari dopo Torpignattara nei giorni successivi sono andati a cercare Cinecittà, Tuscolana... Io faccio questo: cerco di trasmettere agli studenti che vengono in visita anche l'altra faccia della città, quella secondo me più interessante, più in fermento, dove veramente avvengono i cambiamenti sociali: cioè i quartieri di periferia dove vivono le comunità straniere».
Cittadinanza e ius soli: quando ne parla a scuola, i ragazzi che reazione hanno? Incredulità o rabbia o diffidenza?
«Oggi quando parla di cittadinanza e ius soli a scuola non incontro mai diffidenza perché la metà della classe sono ragazzi nati qui da genitori stranieri quindi parliamo di qualcosa che li riguarda. E riguarda anche i ragazzi che hanno due genitori italiani perché stiamo parlano dei loro amici, dei compagni di banco. Nessuno immaginerebbe mai che il compagno di banco con cui sta crescendo a 18 anni debba andarsene via dall'Italia perché non ha i documenti. La diffidenza su cittadinanza e ius soli purtroppo si trova nella politica, che trasmette messaggi cupi, mette paura dei ragazzi di seconda generazione sfruttando quei casi che ci sono stati, ad esempio con il terrorismo. Questo è un gioco che fa la politica: trasmettere ai cittadini la paura che ci siamo dei potenziali nemici che stanno crescendo nel nostro Paese, e che i nemici sono i ragazzi che nascono da genitori stranieri. Questo è totalmente sbagliato, e il mio lavoro va proprio in questa direzione. Vado nelle scuole per dare un'immagine positiva del cambiamento. È questo l'impegno mio e tutti quelli che fanno cultura e che stanno contribuendo alla crescita culturale di questo Paese».
Sabato 29 maggio alle 16.00 Amir Issaa, insieme a Kento, sarà protagonista dell'incontro "Barre e rime. Parliamo di rap”. L'intervista, condotta da Emiliano Sbaraglia, sarà uno degli appuntamenti de “La grande invasione di Ivrea”, il festival della lettura che si terrà, in presenza, da giovedì 27 a domenica 30 maggio con circa cento ospiti, reading, incontri, lezioni, mostre e interviste.