Una donna bionda e ben vestita si aggira, nell’indifferenza generale, tra i parchi e le vie del centro di una città avendo in mano non una borsetta ma un fucile. Il contrasto tra la scena di ordinaria normalità e l’arma è stridente. L’opera è di un’artista di Belgrado, Milica Tomić, e ha un titolo lungo come un film di Lina Wertmüller che tradotto recita: “Un giorno, anziché una notte, lampeggerà una raffica di mitragliatrice, se la luce non può venire altrimenti”. Pistole, fucili, uniformi militari, residuati bellici sono tanta parte, e non poteva essere altrimenti, della mostra “Più grande di me – voci eroiche dalla ex Jugoslavia”, al Maxxi di Roma, fino al 12 settembre.
Espongono sessanta artisti di tutti gli Stati sorti dall’implosione dei Balcani. Una ricomposizione del Paese che, se è andato politicamente in frantumi, «esiste ancora come spazio culturale comune», sottolinea la curatrice Zdenka Badovinac, già direttrice del museo di Arte Moderna di Lubiana e recentemente silurata per evidenti motivi politici dal nuovo governo di centro-destra sloveno del premier Janez Janša, un personaggio che all’epoca della guerra di secessione, inizio il 25 giugno di 30 anni fa, era contemporaneamente obiettore di coscienza e ministro della Difesa. E ora pare baloccarsi in ipotesi su una nuova ridefinizione dei confini ex jugoslavi su base etnica, preludio di altre possibili guerre. Janez Janša c’è in mostra, anzi è uno e trino. Perché tre performer, l’italiano Davide Grassi, il croato Emil Hrvatin e lo sloveno Žiga Kariž, hanno deciso nel 2007 di cambiare legalmente il proprio nome ed assumere quello dell’uomo politico come risposta provocatoria a un suo slogan da campagna elettorale: «Più siamo e prima raggiungeremo l’obiettivo».
Cosa succede, si sono detti, se diventiamo tutti Janša, cioè replicanti del capopopolo? Così si sono fotografati con grande corollario di marchi di carte di credito, nel duplice messaggio che allude alla corsa al mercatismo sfrenato e al tema dell’identità che tanti lutti addusse e ancora adduce in luoghi da tre decenni segnati dall’ossessionante questione dell’appartenenza tribale. L’universo artistico ha svolto un ruolo importante per la dissidenza in epoca titoista. Una critica non al socialismo in sé ma a come è stato attuato nel tradimento degli ideali dell’epopea partigiana. In seguito ha alcune colpe da rimproverarsi se non furono pochi coloro che appoggiarono le tendenze separatiste e bellicose degli anni Novanta.
Fu un famoso memorandum dell’Accademia serba delle scienze e delle arti (1986) a fornire a Slobodan Milošević la base ideologica per il sogno della Grande Serbia. Altrettanto avvenne con le adesioni individuali al proprio leader etnico in tutta la dorsale che scende dalla Slovenia fino alla Macedonia, con la scusa che bisognava serrare le fila quando c’era il nemico alle porte nei ben quattro conflitti che si sono dipanati negli anni Novanta (Slovenia, Croazia, Bosnia, Kosovo). Ma smaltita la sbornia nazionalista e subiti gli scempi del liberismo selvaggio che ne è seguito, un fremito d’opposizione ha scosso tutta la regione perché, come chiosa ancora Zdenka Badovinac, «gli intellettuali sono pressoché tutti progressisti».
E l’esposizione di Roma ne è la controprova. Abbondano i riferimenti a un Novecento in nessun altro luogo così fatale se il secolo nacque a Sarajevo con lo sparo di Gavrilo Princip e lì morì con l’assedio più lungo della storia contemporanea. Tanto da avvalorare la frase di Winston Churchill per il quale «i Balcani producono più storia di quanta ne possono digerire». Al Maxxi Lana Cmajcanin è presente con una stampa su plexiglass della pistola con cui l’irredentista serbo Princip uccise l’arciduca Francesco Ferdinando, l’erede al trono d’Austria, e la di lui moglie Sofia: il pretesto per lo scoppio della Prima guerra mondiale. Dalla stessa città arriva tramite Adela Jušić l’immagine di un cecchino, nel ricordo funesto di quando la capitale della Bosnia fu una conigliera per i cacciatori all’ingrosso di vite umane, donne e bambini compresi.
Lo sloveno Tobias Putrih propone un Richard Burton che interpreta Tito nel film del 1973 “Sutjeska” (“La quinta offensiva”, in italiano). Un’intera parete è occupata da 80 ritratti di eroi civili della resistenza conservati per anni nei magazzini del museo della Bosnia Erzegovina e raccolti dal collettivo “Irwin”: è lo stimolo a una riflessione sul ruolo degli eroi all’epoca in cui ci si batteva per qualcosa di “più grande di me” (dal titolo della mostra) e si credeva nel valore di una società solidale mentre «la dottrina Thatcher, ponendo l’accento sull’individuo ha svuotato di significato la parola eroe», come sottolinea Giulia Ferracci, la curatrice associata dell’esposizione.
Se tanto passato vicino e lontano viene riesumato è perché un filo di nostalgia percorre le sale.
Certo furono fatti degli errori, durante il Regno di Jugoslavia e poi nella Repubblica socialista, però quanto di buono nel comune intento di vincere il nazifascismo, nell’idea di una comunità solidale che avrebbe voluto declinare al meglio la parola chiave, “uguaglianza”, e quanto inganno nella promessa di prosperità tradita dalla svolta supercapitalista che ha reso tutti un po’ più poveri e non solo nelle tasche. L’arte è allora indotta a cercare nel quotidiano esempi di valori perduti come la fratellanza. Trovandoli, ad esempio, negli “Angeli dalla faccia sporca” del croato Igor Grubić, i minatori del distretto di Kolubara in Serbia che con il loro sciopero nel 2000, diedero il primo colpo di piccone al Palazzo del potere cristallizzato attorno alla figura del nazionalsocialista Slobodan Milošević.
Oppure nel sempiterno richiamo dell’amore che supera qualunque barriera nella struggente vicenda da cui trae spunto il logo della mostra disegnato da Djordje Balmazovic, una coppia stretta in un abbraccio: lui è Boško Brkić, serbo di 24 anni, lei Admira Ismic, bosniaca di 25 anni, uccisi a Sarajevo il 19 maggio 1993 sul ponte di Vrbanja che divideva in due, tra assedianti e assediati, la capitale. Era stato raggiunto l’accordo di una tregua per farli passare, Giulietta e Romeo a cui era stato promesso un diverso finale, lontano dai luoghi dove era stato dichiarato impossibile il loro sentimento. E invece furono trucidati, con lei che, ferita, si trascinò fino al cadavere di lui per morirgli tra le braccia. La vicenda che può essere presa a simbolo dello spartiacque tra un prima e un dopo, tra il voler “essere più grandi di noi” e il ritrovarsi miseramente arruolati nel piccolo esercito sovranista della chiusura e dei ponti levatoi, secondo l’interpretazione di Zdenka Badovinac.
La strada per risalire la china dei valori perduti va percorsa almeno in bicicletta, come segnala il gruppo di artisti e attivisti anonimi sloveni che ha scelto le due ruote come simbolo di resistenza ai nuovi, invasivi poteri. Le biciclette bicolori in vernice spray contornano come una cornice la mostra a segnare un perimetro di resistenza e di denuncia. Come quella che riguarda il vecchio stadio di Lubiana in rovina dove amano ritrovarsi per raduni fascisti i neo-domobranci, dal nome della formazione collaborazionista dei nazisti negli infausti anni tra il 1941 e il 1945.
Trovano spazio anche messaggi su diritti civili lanciati da avanguardie coraggiose come la solita e notissima Marina Abramović o la provocatoria Vlasta Delimar ritratta nuda su un cavallo bianco per le vie del centro di Zagabria per una performance dal titolo “Lady Godiva”. Mentre una sezione lancia lo sguardo sul difficile rapporto tra l’uomo e la natura e sul consumo di risorse che non possiamo più permetterci.
La ex Jugoslavia è tappa di un percorso intrapreso dal Maxxi alla scoperta delle realtà artistiche del Mediterraneo. Prima c’erano stati Libano, Turchia, Iran, Africa. Una vocazione che la presidente della Fondazione Giovanna Melandri considera necessaria per «offrire una rilettura delle stagioni passate e una lampada per esplorare il futuro», di popoli che con noi hanno molto da condividere visto che affacciano sullo stesso mare. Con i Balcani, l’intento evidente è di segnalare quanto le dolorose vicende delle guerre e del lunghissimo dopoguerra non vadano ascritte a prerogativa di un’area aliena al resto del mondo. I travagli di una terra che sorge su linee di frattura etniche, religiose e culturali, spesso scomposte e ricomposte dalla Storia, non sono stati il segno di un ritorno al passato come si credeva, ma hanno annunciato il mondo futuro.
Non per caso proprio dal vicino Est ha cominciato a soffiare forte il vento separatista che ha riacceso il fuoco per rivendicazioni analoghe nell’Occidente e non solo. Per questo è ancora più importante ascoltare i moniti che gli artisti ci lanciano. Hanno sperimentato per primi i guasti della post-modernità neoliberista, li hanno potuti elaborare, e ce li restituiscono attraverso il linguaggio universale dell’arte. Affinché ne facciamo tesoro.