L’intervista
Erri De Luca: «Difendiamo la lingua dalle falsificazioni»
Un nuovo libro, “A grandezza naturale”, che indaga il complicato legame coi padri. Al quale un figlio torna sempre, anche quando sembra irrimediabilmente reciso. E un elogio dell’italiano, che è seme e germoglio, potere e resistenza
Con Erri De Luca non ci incontriamo di persona, né lo facciamo attraverso uno schermo, il nostro è un incontro scritto, una lunga corrispondenza che parte dal suo ultimo libro, “A grandezza naturale” (Feltrinelli), un libro di simboli. Forse tutta la sua letteratura è una letteratura di simboli, e tra questi a me sembra che – tra il ritratto di suo padre dipinto da Marc Chagall, il racconto del sacrificio di Isacco per mano di Abramo, il rapporto materiale ed economico come eredità tra i genitori e un figlio, il rapporto tra una figlia e il padre gerarca nazista, la vita di Mosè come figlio – quello predominante nel libro sia il rapporto di eredità e necessario tradimento tra padri e figli e tra figli e padri.
Libertà forse è affrancarsi dalle aspettative del padre: per proseguire su una strada propria occorre consumare un tradimento. Eppure si può sempre non proseguire. Non è la prima volta che tematizzi il rapporto tra padre e figlio (penso a “Il giro dell’oca”, per esempio). Cosa vedi in questo rapporto?
«Ci vedo lo spazio di essere figlio, il recinto che coincideva con la stanza dei libri di mio padre, sotto i cui scaffali sono trascorse le mie notti al riparo dal chiasso della vita della città intorno. Ci vedo la voragine dell’uscita di casa a diciott’anni, un treno alla stazione che mi separava a strappo, un controllore che mi timbrava il biglietto come un foglio di via. Ci vedo il suo ’900 e quello di mia madre, l’età feroce della guerra che continuava nei racconti che la volevano ammansire e invece la ribadivano, consegnandola al mio ascolto. Non vedo caratteri ereditari, non ricordo lezioni impartite, posso descrivere invece un assorbimento di loro usanze, un filtro che ne respingeva la gran parte, uno spirito di contraddizione verso di loro, compresso sotto una docilità che non si permetteva obiezioni né insolenze».
Scrivi «al prigioniero serve almeno un indirizzo oltre le mura». Tante delle parole del libro mi sembrano destinate a quella stanza dei libri della tua infanzia e a quella ribellione, al fare i conti con loro. La letteratura è tutta contenuta in quello che dice il secondo capitolo dell’Apocalisse, ovvero che alla fine del percorso riceveremo un sassolino bianco sul quale c’è scritto il nostro vero nome? È la ricognizione del percorso, il raccontarlo così come è avvenuto, con parole autentiche?
«Le pagine che ho scritto e che mi hanno tenuto una compagnia senza cedimenti, ecco, mi piace credere che vengono da quei primi libri letti da bambino e che raccontavano le vite degli adulti. Non c’era letteratura per ragazzi sugli scaffali, c’era la vita grandiosa degli adulti, le loro terribili avventure. Sono state le mie fiabe. Mi ingrandivano la percezione, il fiato, il vocabolario. Mi consola credere di essere stato avviato a scrivere da quelle letture. Anche se il mio primo racconto scritto a 11 anni non c’entra niente: era la storia di un pesce che non credeva all’esistenza della specie umana. Mi era spuntato da un’ opposizione a Esopo, studiato a scuola, che usava gli animali come controfigure degli uomini. Conoscevo la vita dei pesci grazie alle estati sull’isola, li pescavo e perciò ammiravo la loro battaglia. Laggiù tra di loro non c’erano erbivori, ma spietata catena alimentare. Queste parole posso aggiungerle oggi. Allora volevo scrivere una storia sull’indipendenza degli animali da noi. Sì, mi piacerebbe dire che le mie pagine hanno avuto un percorso e che si sono staccate come foglie dall’albero di quella stanza. Ma non riesco a vedere nessun tracciato, solo uno zigzag tra colpi di memoria che mi spingono a trattenere i ricordi scrivendoli. Ripasso un pezzo di vita svolta e gli do una forma che non ebbe quando accadeva. Poi arrivano divagazioni, immagini, visioni che gonfiano le vene della mano con cui scrivo sui quaderni a righe. Scrivo storie per chi non conosco, senza la presunzione di raggiungerlo. Scrive Borges, il mio preferito: “Come uno che viene da così lontano che non spera di arrivare”».
Citi Borges. Sei anche uno scrittore di versi, e la tua stessa prosa è una lingua precisissima in cui non c’è spazio per una parola in più. Racconti del Golem di Praga, a cui il rabbino ha scritto in fronte la parola verità, “èmet” e poi, per paura della sua invincibilità, ha cancellato la prima lettera: “met” significa morto. Nel mito verità e morte sono sorelle. Una cosa che vorrei chiederti è se per te una volta che la parola è scritta è morta come diceva Salinger («Non raccontare niente a nessuno. Se lo fai ti mancherà chiunque») oppure è lì che inizia a vivere. E poi quali sono, oltre a Borges, gli scrittori per te più importanti, quelli che continuano ad alimentarti.
«Rispondo dalla fine della domanda, Borges è la mia felicità di lettore, ma questo non c’entra con la scrittura che faccio. Non mi riconosco influenze. Leggo molta scrittura sacra ogni giorno, so che non c’entra con la mia scrittura, escluse le citazioni. Una volta che la parola è scritta, è morta? Ma se incomincia proprio in quel momento a venire al mondo e a cercare uno che la legga. La parola scritta, la letteratura, è la più alta definizione delle cose del mondo. Da lettore ho visto spalancarsi qualunque rivelazione di vicende umane, ho visto l’indescrivibile descritto. Sono stato aperto come un solco da un aratro di parola che mi rigirava e mi frugava dentro. La parola scritta è seme, germoglia nel lettore. È principio dello scambio tra una storia scritta in altro tempo, luogo, e il presente della persona che legge e rimescola le pagine con se stesso. Mi senti rispondere da lettore più che da scrittore, ma è quello che sono, il modo con cui mi definisco tra me e me».
La parola scritta cuce il tempo e lo spazio, senza la sua testimonianza la memoria sarebbe sbiadita. Ho letto alcune delle tue traduzioni di testi sacri, per esempio “Esodo/Nomi”, “Khoèlet/Ecclesiaste”, “Il libro di Rut”. Nei testi sacri trovi l’idea di una parola generativa, quasi primordiale o c’è altro? Cosa contengono l’ebraico e lo yiddish per averti tanto appassionato?
«L’Ebraico antico è la lingua che ha verbalizzato il monoteismo, quella dell’Antico Testamento, testo originale da cui discendono tutte le traduzioni. L’ho avvicinata per curiosità, per sapere com’era fatta la grammatica, l’alfabeto, portatori della novità che avrebbe liquidato tutte le divinità precedenti, facendole retrocedere a mitologie. Mi è capitato l’incontro in mezzo ai trent’anni, gli ottanta del secolo, un tempo desertico per me. Portai la mia prima grammatica di ebraico antico in Africa dove ho svolto un servizio volontario e gratuito. Cominciai lentamente a capirci qualcosa e mi accorsi della distanza tra l’originale e le traduzioni correnti. Trattavano quella lingua come un semilavorato grezzo da perfezionare nelle traduzioni. Da qui le mie poche traduzioni letterali di alcuni libri dell’Antico Testamento. La prima pagina imparata a memoria in quella lingua è il salmo 137. La lingua yiddish l’ho studiata a causa del ’900. Nella prima metà era stata bruciata, ammutolita dallo sterminio. Quella storia appena precedente la mia nascita mi ha coinvolto i sensi. Eroe della mia adolescenza è Marek Edelman, dirigente dell’insurrezione del ghetto di Varsavia nel 1943. Cinquant’anni dopo andai a Varsavia per l’anniversario e ritornai con l’intenzione di studiare yiddish. Era l’unico atto di riparazione alla portata di uno venuto dopo. Ho avuto in cambio il dono di una letteratura intera, poco tradotta. Non ho origini ebraiche, ma come scrisse Borges: “Chi mi dirà che non stai/nel labirinto del mio sangue, Israel?”. Uno del Mediterraneo non può escludere dal sangue dei suoi antenati il greco, il fenicio, lo slavo, l’ebraico, l’arabo, il normanno. Ma non credo che questi miei accostamenti dipendano dall’albero genealogico. Sono incontri avvenuti, come per il russo, per lo swahili».
C’è anche una lingua unica, il sabir, che un tempo era parlata in tutti i porti, da una parte all’altra del mare. Tu scrivi «Negli abissi del disumano, il semplice umano abbaglia come la raffica di un lampo». Può la letteratura continuare a farsi parola che resta in mezzo allo svilimento in cui tutto si può dire e contraddire di continuo senza conseguenze? Sarò drastico: c’è un futuro per questa parola letteraria in un uomo educato allo svuotamento di senso?
«Più la parola pubblica perde di consistenza, smentita da chi la pronuncia, più la parola pubblica ha solo valore pubblicitario, più cresce la domanda di parola contraria. Non mi riferisco alla mia, già incriminata e poi assolta, ma alla parola che rispetta la sua definizione, che suscita pensieri, che porta responsabilità di quanto afferma. Perciò riescono gli appuntamenti letterari, filosofici, perciò si staglia fuori dal gergo la parola del pontefice in carica. Non è un paradosso, nei regimi dove si nega la libertà di espressione ecco che la parola diventa una forma inespugnabile di resistenza. Lo scrittore oggi ha il compito accessorio di difendere il vocabolario. Quando passa liscia, senza obiezione, la parola invasione riferita ai flussi migratori, qui serve che lo scrittore si opponga allo spaccio di vocabolario falso. Invasione è termine militare, di eserciti che aggrediscono una nazione. La nostra storia è piena di invasioni. Non si possono confondere con degli inermi, donne e bambini compresi che arrivano alla spicciolata, irregolarmente, ma con intatto il diritto di domandare asilo. Oggi siamo chiamati a proteggere la nostra lingua dalle falsificazioni arbitrarie di autorità e organi di informazione».
Andrei avanti a lungo, ma lo spazio a disposizione mi consente di farti solo due ultime domande, forse anche impertinenti. Credi in Dio? Avresti voluto avere un figlio?
«Non sono credente, non posso rivolgermi alla divinità con il pronome tu delle preghiere. Ma posso pronunciarmi solo su di me. Chi ha fede possiede una dedica della propria vita, una presenza accanto che io non ho. Non sento la mancanza di questo dono, ne ho avuti molti. Da qualche parte ho usato l’immagine di un deserto e di un accampamento in cui risiedono le persone di fede. La mia tenda è fuori del perimetro. E no, non sento mancanza di figli».