Quadri attribuiti a Pollock, Rothko, van Gogh, ma contraffatti. I truffatori li producono per soddisfare un mercato insaziabile. Che non ha nessun interesse a scoprire l’inganno

Pochi giorni dopo Pasqua si diffonde la notizia di un’altra resurrezione. Non è un evento che coinvolga il corpo di Cristo, ma una faccenda materiale che comunque esige un atto di fede. Il Cristo si presenta incoronato di spine, il volto pallido e dolente dell’Ecce Homo. La sua immagine arriva dal catalogo di una casa d’aste madrilena. Ma il 7 aprile, il giorno prima dell’asta, il quadro viene ritirato dalle autorità spagnole. Non per il sospetto che sia un falso, anzi, il contrario. Il dipinto, valutato 1.500 euro come opera di un seguace di José de Ribera, potrebbe essere di Michelangelo Merisi.

 

Gli esperti, a quel punto, rompono il silenzio. «Ecce Caravaggio» decreta Vittorio Sgarbi. La storica dell’arte Maria Cristina Terzaghi, dialogando su Il Giornale dell’Arte con il collega Stefano Causa, racconta di aver fatto appena in tempo a volare a Madrid. «Se avessi pensato di essere l’unica a credere all’autografia dell’opera non penso che sarei saltata su aereo in tempo di Covid-19. Il sapere che anche tu ci credevi, che anche gli amici antiquari che mi hanno inviato l’immagine e altri con cui ne ho parlato pensavano che potesse essere lui, mi ha confortata nell’impresa. Se c’è una cosa che la pandemia ci ha insegnato è che non ci si salva da soli. Io sono convinta che non si può nemmeno essere storici dell’arte da soli…».

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Da metà marzo, quando la casa d’aste ha messo online il catalogo, fino al giorno in cui la scoperta è diventata di dominio pubblico, lo scambio sotterraneo tra studiosi mercanti e collezionisti ha dunque prodotto un parere quasi unanime. La fede si forma attraverso una comunità, persino quando c’è concorrenza tra chi si prepara a offrire dei milioni. Però la fede non è sufficiente. Come il San Tommaso dipinto da Caravaggio, bisogna vedere da vicino, toccare con mano. E sebbene Terzaghi ci sia riuscita, neanche questo basta. C’è da collegare il quadro proveniente dal salotto di una defunta signora madrilena all’origine nell’Italia del Seicento. Ci vuole una storia che collimi con l’intera vicenda dell’artista e delle opere, al costo di riscrivere quella finora ricostruita. Se è autentico l’Ecce Homo di Madrid smette di esserlo l’Ecce Homo di Genova identificato nel 1954 da Roberto Longhi. Il vero e il falso si scambiano di posto.

 

Nei giorni della scoperta del Cristo caravaggesco mi è capitato di vedere il documentario “Made You Look: una storia vera di capolavori falsi”. Il film di Barry Avrich, disponibile su Netflix, ripercorre la maggiore truffa nel mondo dell’arte statunitense. Tra il 1994 e il 2011, la più antica galleria newyorchese, Knoedler, ha venduto per oltre 80 milioni di dollari una quarantina di opere attribuite a Rothko, Pollock, Motherwell e altri esponenti dell’espressionismo astratto. La direttrice Ann Freedman acquistava le tele da una sconosciuta mercante d’arte, Glafira Rosales, che le dichiarava provenienti da una collezionista di cui gli eredi chiedevano l’anonimato. Rendeva plausibile quella richiesta non insolita una storia che si dipanava tra il Messico, Paese nativo di Rosales, e la New York degli anni Cinquanta. In realtà, i quadri venivano da un garage del Queens, realizzati da un anziano pittore immigrato dalla Cina. Il compagno spagnolo di Rosales li invecchiava, li firmava e, infine, lei li portava alla galleria sontuosamente alloggiata a pochi isolati dal Metropolitan Museum.

 

Nel 2009, anno in cui Freedman si dimette da Knoedler a causa dell’intensificarsi delle voci sulla dubbia provenienza delle opere da lei vendute, viene alla luce un’altra clamorosa truffa d’arte. A Magonza, città quanto mai dissimile dal centro d’affari globale di Manhattan, gli inquirenti scoprono un magazzino pieno zeppo di falsi bronzi di Alberto Giacometti. Meno ambiziosi dei newyorchesi, i due tedeschi arrestati hanno incassato solo nove milioni di euro sul mercato parallelo. Spacciandosi per un conte eccentrico, il piazzista offriva la “prova” di un libro da lui firmato (scritto in realtà dal socio esperto d’arte) che rivelava come Diego Giacometti gli avesse confidato di aver sottratto le statue agli impulsi distruttivi del fratello. Nel documentario “Il caso dei falsi Giacometti” (che si trova su Raiplay), la regista Claire Ott riserva un ruolo centrale al falsario olandese Robert Driessen, l’unico della banda tornato in libertà.

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I giudici tedeschi sono stati più clementi con Driessen, riconoscendogli di aver agito anche per motivi non venali: bisogno di riconoscimento, sfida, emulazione dell’altrui talento. A chi non deve stabilire una sentenza, i falsari d’arte tendono a stare ancora più simpatici. Devono usare delle capacità artistiche. Creano l’illusione - o l’aura - dell’oggetto unico e prezioso che è la quintessenza dell’oggetto del desiderio. Desiderio per pochi o pochissimi che possono spendere tanto, convinti di aver fatto un affare. Eppure Driessen, che in dieci anni ha sfornato circa 1.300 Giacometti, risulta privo del fascino dei grandi falsari del passato: a cominciare dal connazionale Han van Meegeren, capace di rifilare i suoi Vermeer persino a Himmler, passando per lo scintillante Elemyr de Hory immortalato da Orson Welles in “F come falso”, fino a Wolfgang Beltracchi che seguita a rivendicare la sua maestria con lo spirito contestatario degli anni Settanta.

 

In “Made You Look”, l’artefice dei quadri da 80 milioni si nega alla troupe andata a rintracciarlo in Cina, dov’è tornato per sottrarsi alla giustizia americana. Non ne sarebbe comunque stato il protagonista, Pei-Shen Qian, pagato 5mila dollari a dipinto. Il Novecento è finito, i falsari producono per un mercato insaziabile, come se fossero le intercambiabili controfigure degli artisti più quotati. Così al centro del film di Avrich non ci sono gli autori della truffa, ma l’imperscrutabile direttrice della galleria d’arte che, trascinata in tribunale, riesce a uscirne in extremis con un accordo tra le parti. Sarebbe stato possibile dimostrare che Ann Freedman sapeva di rivendere dei falsi? E sono credibili alcuni esperti quando sostengono di non averle mai dato corda?

 

Un altro elemento di fascinazione sono i collezionisti. Eleanor e Domenico de Sole non hanno resistito all’occasione unica di un Rothko, lo hanno appeso in casa, lo hanno intestato a una figlia. Lui, figlio di un generale calabrese, deve la sua fortuna americana al lavoro manageriale che lo ha portato ai vertici di Gucci. Soltanto loro, collezionisti all’antica, hanno deciso di trascinare Knoedler al processo, testimoniando prima davanti alla corte e poi nel documentario.

 

Ma anche altri hanno reagito alla truffa con un furioso desiderio di vendetta. A cominciare da Pierre Lagrange, fondatore di un hedge-fund, che per pagare un divorzio da 160 milioni di sterline voleva mettere all’asta un Pollock, vedendoselo rifiutare da Sotheby’s e Christie’s. È lui che, facendo causa, ha reso pubblico lo scandalo, anche se alla fine ha preferito le riservate trattative di un accordo. Succede nel 2010, anno in cui persino chi, come Lagrange, deve alla finanza i milioni da investire in arte risente ancora della crisi finanziaria. Come mai gente che nella vita guadagna e perde - e fa guadagnare e perdere - incalcolabili somme di denaro desidera distruggere chi gli ha venduto un falso d’arte?

 

Nel nuovo romanzo di Andrea Inglese “La vita adulta” (Ponte alle Grazie) un gallerista fiero di ritenersi uno degli ultimi borghesi fa una tirata contro i nuovi ricchi, per lo sconcerto della giovane artista che ha deciso di lanciare a New York. Le racconta di un tale che «non era certo uno tra i primi che da Wall Street saliva a Chelsea. Venivano gonfi dei loro bonus per diversificare gli investimenti e spalmarsi, nel contempo, una patina di spirito liberal». Quel trader smanioso di reinvestire delle azioni urgentemente liquidate, batteva le gallerie a ridosso dell’11settembre e metteva paura.

 

«Vengono presentati come eroi del nuovo capitalismo, ma sono dei pazzi pericolosi», sostiene il gallerista. «Oggi più che mai il sistema è una questione di fede. Tutti ci vogliono credere. Anche il più sfigato risparmiatore di Detroit». Allora, se ha ragione il personaggio, forse chi muove e manovra quella fede non sopporta di essere tradito se, per una volta, anche lui crede totalmente nell’unicità dell’oggetto acquistato. L’opera d’arte sembra l’ultimo baluardo del valore attaccato alle cose in un mondo dove i valori - finanziari, ma non solo - sono sempre più immateriali. Può essere trattata come un asset da tenere in un caveau, può essere addirittura un falso: quel che conta non è l’opera in sé ma ciò che rappresenta. E se per stabilirne il valore vero e unico serve l’apporto di una storia, nulla vieta di percorrere all’indietro la storia della Knoedler.

 

In fondo, per molti molti anni, tutti vissero felici e contenti dei loro capolavori. Se Lagrange non avesse divorziato, o perlomeno non nel mezzo della crisi, magari Glafira Rosales, l’unica ad aver scontato carcere e condanna, oggi non servirebbe breakfast e hamburger contando sulle mance.