Casamonti, Cucinella, De Lucchi, Fresa, Fuksas, Piano: in Albania, in Georgia, in Russia, in Cina, i nostri più noti progettisti disegnano ministeri, aeroporti, stadi. Con grande libertà estetica. Ma tenendo un forte legame con la tradizione locale

Ci sono un americano, un tedesco, un francese e un italiano... Comincia così, luglio 2006, nella San Pietroburgo delle notti bianche, l’avventura russa di Francesco Fresa, studio milanese Piuarch: in gioco è la progettazione di un edificio per uffici in faccia alla Cattedrale di Sant’Isacco, 5 mila metri quadri fra due palazzi settecenteschi che il committente pensa di demolire lasciando in piedi giusto le facciate.

 

Lo yankee e gli altri due schizzano roba moderna, spettacolare quanto basta, effetto Dubai, buona per qualsivoglia latitudine e longitudine: che altro possono volere dei russi pieni di soldi usciti da poco da uno stile di regime, con in testa il mito americano? Poi arriva Fresa e sciorina i colori di Kandinskij, i triangoli di El Lissitzky, i quadrati di Malevich il suprematista, che proprio lì di fronte abitava.

 

Vince lui. Quattro Corti è completato nel 2009 e affittato come quartier generale di Gazprom-Neft. Intatti i due palazzi del Settecento, integrati nella nuova struttura, la contemporaneità dei pannelli inclinati effetto caleidoscopio è in un edificio «pensato come introverso, la vita nei cortili, se leggi Dostoevskij capisci». I colori, uno per corte, sono l’oro della cupola di Sant’Isacco, il blu del palazzo di Caterina II, l’argento della sua sala degli specchi, il verde dell’Ermitage.

 

Contro un’architettura autoreferenziale e indifferente ai luoghi, la logica è quella del dialogo serrato con una città, una tradizione, un sistema di segni sedimentati nella storia.

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Dei sei studi di progettazione che alla Fondazione Cini a Venezia espongono disegni e plastici alla mostra “Est. Storie italiane di viaggi, città e architetture”, Piuarch è il più piccolo. Ma il medesimo vincente approccio progettuale lo ritrovi negli altri cinque: Amdl, Archea, Cucinella, Fuksas, Piano, corazzate dell’architettura italiana che dall’Albania alla Russia alla Georgia alla Cina fino al Vietnam, l’Est come nuova frontiera, costruiscono aeroporti, ministeri, stadi, parchi, espansioni di metropoli per milioni di metri quadri e miliardi di euro.

 

La non resistibile ascesa della globalizzazione livella gusti, forme e stili? Gli italiani lavorano sulle differenze, cercano le specificità, interagiscono con il genius loci. Per altri, ipertrofia dell’io, progettare è lasciare la loro tag su spazi tabula rasa, come writers su muri intonsi? Gli italiani il proprio tratto, anche forte e nuovo, lo declinano in spazi mai pensati come vuoti perché attorno hanno un passato, una lingua, volti, cibi, usi e costumi.

 

«Ma è ciò che facciamo da secoli: Marco Polo e il gesuita Matteo Ricci, i maestri comacini cui si devono mura e torri del Cremlino, chiese, fortezze, opere idrauliche, e Giacomo Quarenghi, Antonio Rinaldi, Carlo Rossi chiamati da Pietro il Grande e Caterina II». Così il curatore Luca Molinari, che in controcanto alle architetture d’oggi espone, dal prezioso archivio della Fondazione Cini, carte e mappe secentesche, i disegni di San Pietroburgo, la Tirana di Gherardo Bosio anni ’30, fino agli scatti di Tiziano Terzani nella Cina anni ’80 della “corsa all’amnesia” e in Urss nel ’91 «alla ricerca del cadavere del comunismo».

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Praterie, la Russia e la Cina. «In Italia, schiacciati dal peso della storia, una demografia negativa, un territorio già troppo costruito, un regime vincolistico stringente, il grande lavoro da fare è di rigenerazione urbana», dice Marco Casamonti di Archea: «Ma a Mosca ovest su un’ansa della Moscova, vinto il concorso per il masterplan del nuovo quartiere Rublyovo-Arkhangelskoye, progettiamo un milione di metri quadri di residenze, uffici, business center, università, case di riposo, aree sportive, negozi. Con un lago, un bosco, niente parcheggi in strada, un sistema di raccolta rifiuti simile alla posta pneumatica e metrò in costruzione. Godiamo di una grande libertà estetica, in dialogo con una natura che noi stessi disegniamo. E di straordinarie possibilità di sperimentare soluzioni e tecnologie».

 

Sullo sperimentare, l’ipercapitalista Cina comunista è il sol dell’avvenire. Raccontano Massimiliano e Doriana Fuksas che il loro aeroporto internazionale di Shenzhen, a nord di Hong Kong, nell’80 prima “zona economica speciale” del nuovo corso di Deng Xiaoping, «è stato completato nel 2013 in due anni e mezzo, bonifica dell’area inclusa. Ed è esattamente come il primo modellino presentato al concorso, del quale ha mantenuto la freschezza dell’idea, un’architettura pensata pop up come le lanterne cinesi: due chilometri a luce naturale e senza problemi di condizionamento, struttura elaborata con gli algoritmi di un nido d’api, a esagoni montati uno per uno da cinesi che ormai, come gli italiani, uniscono alta qualità artigianale a nuova capacità industriale».

 

Hanno un sacco di altri lavori: a Pechino, Shanghai e, a Shenzhen, una torre di 200 metri con tagli e scavi nel volume vetrato del grattacielo, all’interno lobby, giardini, trasparenze. Sono in buona compagnia. A Hangzhou, finito lo scorso anno, è il “superblocco” di Renzo Piano, sede del colosso della moda Jnby. A Liling, di Archea, dodici giganteschi vasi decorati dalle forme anomale e armoniose ospitano dal 2015 il museo della ceramica, una città dell’arte nata nel nulla e, racconta Casamonti, «così cinese nel suo impianto che altri architetti cinesi l’hanno copiata pari pari, per loro un segno di apprezzamento e rispetto». In beffa alle stupidaggini politicamente corrette contro la “appropriazione culturale”, e a riprova che la storia della civiltà è fatta di intersezioni, scambi, emulazioni, alterità esperite e immaginate.

 

Pioniere nel nuovo Celeste impero è stato però Mario Cucinella. Due anni prima del suo Centro per le tecnologie sostenibili a Ningbo, dalle forme piegate degli origami, è del 2006 il Centro sino-italiano per l’ambiente e la conservazione dell’energia nel campus della Tsinghua University a Pechino.

 

Ha tutti i crismi dell’edificio modello. Frutto di una collaborazione fra i governi italiano e cinese e con il Politecnico di Milano. Concepito attraverso un processo di progettazione partecipata. Parete ventilata per il raffrescamento passivo, diffusione interna della luce naturale, tetto e giardini pensili, strategie di riduzione CO2. Un fiore all’occhiello. E un’occasione mancata: «Potevamo giocare una partita meravigliosa, cavalcare l’onda, immaginare una nuova generazione di edifici ecologici. Così non è stato. Gli altri Paesi hanno una politica estera, noi no. Merkel è stata in Cina sette o otto volte, gli inglesi hanno fissa una task force governativa, noi italiani ci muoviamo in solitudine: la diplomazia non se ne occupa, la politica non ci crede, non ha gli strumenti culturali, si rapporta alle imprese, non con gli architetti».

 

Ah, che invidia quei Paesi in cui all’architettura si chiedono elementi «capaci di cambiare l’ordine delle cose, le modalità del vivere collettivo». Come l’Albania di Edi Rama, dove Cucinella costruisce un Ecspozita Building scavato come una montagna balcanica, e Casamonti ha inaugurato due anni fa il nuovo stadio nazionale di Tirana. O il Vietnam, dove sempre Archea mette mano a un parco tematico sulla collina Ba Na a Da Nang, tetti a pagoda e cantina vinicola ipogea.

 

Progettare sulle ceneri dei vecchi regimi (e dentro i nuovi) è però soggetto alle oscillazioni della storia e all’altalena dei cambi di potere. Prendi la Georgia. «Terra bellissima e turbolenta, cristiana in un Caucaso spartito con l’Islam, per i greci il limite dove collocare miti e leggende sul lato oscuro, Giasone e gli Argonauti, Medea che uccide i figli...». Ne è innamorato, Michele De Lucchi (Amdl Circle è lui), cittadino onorario con tanto di passaporto. Nel 2003 la “rivoluzione delle rose” porta al potere Mikheil Saakashvili: taglio netto col passato, guerra alla corruzione, ha bisogno di simboli, segni forti e identitari, niente che somigli a qualcosa di russo o sei fuori gioco.

 

Sinuoso e fluido, in acciaio e vetro, è di De Lucchi a Tbilisi il ministero degli Interni e sede della polizia, poi a Batumi il Palazzo di Giustizia e l’hotel Medea. «Ma la commessa più straordinaria la ricevo nel 2008», racconta: «Pochi giorni dopo la folle guerra di un mese contro la Russia per l’Ossezia del Sud, il presidente mi dà appuntamento alle 3 e mezzo di notte, quando atterrano gli aerei dall’ovest, e mi chiede di realizzare nella capitale, in un ex caravanserraglio sulle rive del fiume Mtkvari, un monumento alla pace».

 

Un anno e il Ponte della pace è fatto: pedonale, coperto, una conchiglia reticolare su quattro sottili piloni, costruito a Pordenone e rimontato in loco, come una stanza sospesa tra le due rive, assai diverse, cui appartiene. È uno dei simboli della città, e la notte di Capodanno ci si riversano in migliaia per esprimere un desiderio, dopo che Tekuna Gachechiladze, la chef del Café Littera che sta rivoluzionando la cucina georgiana, ha visto realizzato il suo, sposarsi e avere un figlio.

 

Più accidentata l’avventura caucasica di Massimiliano e Doriana Fuksas. Nel 2012 entra in funzione il complesso che ospita il Registro nazionale, la Banca centrale e il ministero dell’Energia, undici differenti petali su quattro piani e una grande piazza front-office, di immediata potenza simbolica perché il cittadino vede quel che il funzionario fa.

 

Sulla riva opposta del fiume sorge intanto il doppio edificio sinusoidale pensato come auditorium e centro espositivo: ma, spodestato Saakashvili nel 2013, il magnate dei media filorusso salito al potere non ne vuole più sapere. Vuoto, in tutta la sua magnificenza, lo usano come set per sfilate di moda e foto di matrimonio.