Da oltre un secolo, dai tempi dei pionieri e fondatori dell’antropologia (da Franz Boas a Bronislaw Malinowski a Margaret Mead), la scienza che indaga su usi e costumi degli umani, sappiamo che la parola cultura va declinata al plurale, perché esistono tante culture e il modello di stampo illuminista per cui dallo stadio primitivo si progredirebbe verso la modernità è un pregiudizio privo di ogni base scientifica, appunto. Eppure, non solo a destra ma anche a sinistra, spesso siamo tuttora convinti che il nostro modo di vivere e di percepire il mondo esprima meglio di tutti gli altri la pienezza della natura di esseri umani. È come se, in fondo al cuore, avessimo paura di ammettere che la parola Fratellanza significhi pure diversità, talvolta conflitto.
Ne abbiamo parlato con Marco Aime, antropologo, professore all’Università di Genova e autore di numerosi libri fra saggi e narrativa. Aime ci guida nella ricognizione di quel sapere che ci fa capire quanto l’Altro appartenga alla stessa famiglia di cui facciamo parte e sia simile a noi, ma non necessariamente identico a noi. Perché diversità e somiglianza non escludono l’una l’altra.
La conversazione comincia con la citazione di Claude Lévi-Strauss. Il grande antropologo diceva che il concetto dell’umanità si ferma davanti alla realtà della tribù. Aime sorride e spiega: «Lévi-Strauss non amava l’idea che le culture si contaminassero fra di loro. Gli piaceva pensare alle strutture ben definite, ben determinate». Si ferma e a poi alla domanda risponde: «L’antropologia classica non sosteneva che eravamo tutti uguali, cercava invece di valorizzare le differenze».
Riflette: «Ma a pensarci bene, spesso le differenze le ha create. C’è chi dice che le etnie (una struttura che a molti sembra “naturale”) siano state inventate dagli antropologi». Continua: «L’antropologia classica ignorava o escludeva dal suo campo di interesse la storia, e guardava al presente come un dato di fatto. Oggi invece cerchiamo di vedere gli scambi, i punti di contatto, e i modi in cui il passato condizioni il presente».
La scienza, fin ai tempi di Linneo nel Settecento, ha sempre classificato. E la classificazione è stata legata all’idea del progresso e del miglioramento della natura, specie umana compresa, ed eliminazione degli elementi considerati “nocivi”. Il razzismo nasce nel contesto illuministico e fa parte della Modernità. Lo hanno spiegato Adorno, Horkheimer, Arendt, infine Bauman.
Aime interrompe: «Mi chiede quando è che gli antropologi hanno messo in questione tutto questo costrutto? La svolta c’è stata con Malinowski. Malinowski sapeva che occorreva recarsi sul luogo e non bastavano i resoconti di missionari e esploratori». Restò bloccato nelle Isole Trobriand quando era scoppiata la Prima guerra mondiale e lui era cittadino dell’Impero austroungarico, di uno Stato nemico cioè dell’Impero britannico.
Riprende: «Durante quel soggiorno forzato aveva compreso che per capire le culture altre, bisognava assumere il punto di vista delle persone del luogo. Certe diversità non le puoi guardare con il tuo metro di giudizio. Bisognava provare a mettersi nei panni degli altri».
Continua: «Faccio due esempi. I colonialisti in Africa vedevano persone chiacchierare, e questa sembrava loro una insensata perdita di tempo. Però per molti africani la chiacchiera era un grosso investimento in socialità. Oppure un inglese che vedeva un indiano seduto sotto una pianta diceva: quell’uomo non fa niente. Ma l’indiano stava facendo una cosa, stava seduto sotto la pianta». Conclusione: «Cambiare la prospettiva è quello che si cerca di fare quando si vuole spiegare la legittimità della diversità culturale».
Malinowski era nato a Cracovia, nella regione della Galizia, dove abitavano l’una accanto all’altra popolazioni di varie lingue, fedi, costumi: polacchi, ebrei, ucraini. Era, per modo di dire, abituato alle diversità e ai cambi di prospettiva. E del resto, per il grande reporter e scrittore Ryszard Kapuscinski, in odore di Nobel prima di scomparire nel 2007, nato in Bielorussia in una città sempre multietnica (polacchi, bielorussi, ebrei), Malinowski era un riferimento fondamentale. Lo studiava. Lo considerava un maestro. E anche l’arte di Kapuscinski consisteva nell’assumere il punto di vista e lo sguardo dell’Altro.
Insomma, l’antropologia ha qualcosa a che fare con un procedimento letterario? La risposta di Aime è: «Sì. Da alcune decine di anni gli antropologi sanno che l’oggettività non esiste e che la ricerca è frutto di una relazione fra un individuo e gli altri». Spiega: «Gli umani non sono prevedibili, come lo potrebbe essere la natura. E così il saggio antropologico assomiglia sempre di più a un resoconto letterario. Kapuscinski per certi versi potrebbe essere considerato un antropologo, anche se con un suo stile da scrittore».
Si riflette sul fatto che nel discorso sulle diversità, oggi, un certo ruolo lo gioca «l’uso delle differenze culturali per coprire invece il fenomeno delle disuguaglianze sociali». E questo riguarda la facilità con cui penetra nella società la narrazione della destra sull’immigrazione. Con l’aggravante che oggi quel fenomeno coincide con la crisi economica.
«Se l’ondata migratoria come quella cui stiamo assistendo fosse avvenuta con un’economia in buona salute, forse ne avremmo un’altra percezione», dice Aime. E aggiunge: «Purtroppo, la sinistra ha perso la capacità di raccontare il mondo a partire dai valori come solidarietà e fratellanza. L’unico a parlarne seriamente è papa Francesco».
Ha detto narrazione, percezione. Anche del colore della pelle. Non ci riferiamo ai fatti di cronaca recenti, ma a qualcosa di strutturale o forse ancestrale. Diciamo, senza pensarci: «Biden presidente democratico», «Trump populista». Ma Obama è «presidente nero». Però, guardando i bambini giocare, si nota che non percepiscono il colore della pelle dei compagni. E allora, distinguere il colore della pelle è una questione culturale e non un dettame della natura?
Aime sorride: «Una mia allieva ha fatto la tesi su questo tema. Alla domanda posta a un bambino: da dove viene il tuo amico? La risposta è stata, «da Gallarate», anche quando l’amico aveva la pelle nera. Penso che i bambini percepiscono il colore della pelle ma non ne fanno un problema. Siamo noi adulti a farlo». Si ferma e dice: «Al colore nero abbiamo sempre associato tutto ciò che è negativo: paura, notte, oscurità ma anche mercato nero, lavoro nero. Sono convinto comunque che i ragazzi oggi sono diversi rispetto al passato. Io andavo a scuola dove tutti eravamo bianchi, italiani, cattolici. Oggi non è più così».
Proviamo allora a fare il primo provvisorio bilancio di questa conversazione. Il relativismo culturale (inteso come il fatto che le culture sono plurime, non come indifferenza nei confronti delle pratiche di oppressione, ci torneremo) sta alle radici dell’antropologia. Nessuno oggi se ne scandalizza, come nessuno oserebbe contestare la teoria della relatività di Einstein o le regole della fisica quantistica.
Però sembra diffusa la convinzione di fondo per cui la nostra cultura, occidentale, sarebbe l’unica giusta così come sarebbe l’unica giusta la nostra percezione del tempo e del suo utilizzo produttivo. Aime reagisce: «Noi umani siamo abitudinari e conformisti e quindi tendiamo ad accettare la cultura che abbiamo trovato e in cui siamo cresciuti senza porci le domande. È più comodo. Mi chiede se è una forma di etnocentrismo? Sì, ma l’etnocentrismo, oltre all’aspetto dell’ignoranza, è anche autodifesa. Certi cambiamenti potrebbero mettere in crisi molti aspetti della nostra esistenza. Diceva Max Weber: “L’uomo crea una ragnatela di simboli e ci rimane impigliato”».
Quando sente l’annotazione, pericolosa per chi combatte i pregiudizi, che lo stereotipo dell’Altro spesso è basato su elementi reali, Aime sorride: «L’idea di pensarsi migliori degli Altri è comune non solo in Occidente, in Giappone o Cina, ma pure fra le piccole tribù africane. C’è una prassi per cui in alcuni luoghi, quando persone di diverse etnie si incontrano, per prima cosa si insultano, usando gli stereotipi. Poi ridono e si abbracciano. Si riconosce la differenza ma la si trasforma in uno scherzo».
Allargando, spesso pure gli ebrei scherzano fra di loro sugli stereotipi antisemiti. È una forma di autodifesa. Aime riflette: «Lo stereotipo è un problema quando porta all’odio e all’esclusione. Se no, può essere davvero affrontato con ironia. Quando faccio lezioni su relativismo...».
Ecco, dove è il limite del relativismo? «Difficile stabilirlo a priori», è la risposta. «Ci sono cose che possono essere risolte facilmente con il dialogo e il buon senso: il velo delle donne islamiche, il coltello e il turbante dei sikh. Ma non penso che possiamo accettare la poligamia o le mutilazioni genitali, oppure la sottomissione delle ragazze al potere assoluto dei padri. Certamente non sono negoziabili pratiche punibili per il nostro codice penale. Non si possono permettere cose che porterebbero alla dissoluzione del sistema di vita».
La conversazione volge verso la fine. In un suo libro, Aime, viaggiatore instancabile, racconta dell’incontro che ha avuto con un amico nel Benin, in Africa occidentale. Quell’amico gli aveva spiegato di essersi a un certo punto incarnato in un uccello. Era una metafora? L’amico era un poeta? La risposta è: «No. Non era una metafora e lui non era un poeta ma uno storico marxista». Ma allora, il pensiero occidentale può essere messo in discussione anche da chi professa una visione del mondo razionalista e materialista? E cosa ha imparato, Aime, da quell’esperienza?
La risposta è serissima: «Ho imparato che ci sono modi di pensare altri. Ma non ci riuscirò a comprenderli mai, fino in fondo, anche se il mio mestiere lo richiederebbe». Sorride: «Un giorno chiesi a un vescovo cattolico che aveva un suo guaritore vudù di fiducia, come facesse a conciliare i modi di pensiero per me inconciliabili. Mi ha risposto: “Caro professore, questo è un problema tuo non mio”. Infatti. Nell’Africa subsahariana quasi tutti gli uomini e le donne sono animisti, pure i cristiani lo sono. Nel loro cuore e cervello convivono più modi di sentire e di pensare». Conclusione? «Noi, qui in quello che chiamiamo Occidente, siamo più rigidi, più dipendenti, rispetto a gran parte dell’umanità, dalle categorie che abbiamo creato». Comunque siamo tutti fratelli e sorelle.
Con questo dialogo prosegue il viaggio dell’Espresso intorno alla parola “fraternità”. Attraverso il confronto con autori, scrittori, pensatori, un’occasione di riflessione sul valore universale di questo termine, sui suoi usi e sulla sua attualità. Negli incontri precedenti, Wlodek Goldkorn ha intervistato Javier Cercas e Maylis de Kerangal.