Natura e scrittura

Mcfarlane: «La Terra è ormai al collasso ma il Simbiocene ci salverà»

di Ernesto Ferrero   2 giugno 2021

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Nelle profondità del sottosuolo si nasconde la misteriosa energia che tiene insieme il cosmo. Uno scrittore esploratore spiega perché la salvezza è nella cooperazione tra scienza e letteratura

Robert Macfarlane è nato a Oxford nel 1976, è viaggiatore, alpinista, scrittore, critico letterario, docente all’Emmanuel College di Cambridge. Ha esplorato le vie antiche, le montagne, i luoghi selvaggi, e raccontato queste sue avventure in tre libri (tutti presso Einaudi): “Luoghi selvaggi”, “Le antiche vie”, “Montagne della mente”. Il suo libro più recente, “Underland”, sempre Einaudi, è tra i cinque finalisti del Premio von Rezzori, e di certo è il suo più sorprendente e persino perturbante, perché ci obbliga a fare i conti con qualcosa che preferiamo rimuovere, che ci può anche attirare ma scatena le nostre paure, le nostre ansie, le nostre fobie: il mondo sotterraneo, che sta sotto i nostri piedi. Cerchiamo di pensarci il meno possibile.

Le esplorazioni sotterranee di Macfarlane cominciano tra le colline del Somerset, a sud di Bristol, dove ci sono grotte che accolgono ossari estesissimi che risalgono a diecimila anni fa; proseguono nello Yorkshire, dove in un laboratorio a un chilometro sottoterra dei giovani fisici cercano di catturare un vento di particelle che può rivelarci la vera natura della materia oscura.

Poi Macfarlane ci porta nella foresta di Epping, vicino a Londra. Lì scopre che esiste un internet del bosco, un Wood Wide Web, cioè un estesissimo sistema fungino che consente alle piante di comunicare tra loro, scambiarsi informazioni, creare una rete sociale sotterranea.

E poi ci sono le città invisibili, cioè il labirinto sotterraneo del sottosuolo di Parigi, che si estende per centinaia di chilometri, in cui si muovono clandestinamente gli urbex, gli urban explorer, una setta coesa e molto determinata. Ma la curiosità di Robert non si ferma qui: investe le grotte carsiche, fiumi senza stelle come il Timavo, che a un certo punto corre sottoterra per 45 chilometri, prima di ricomparire dalle parti di Duino. Questa è la zona delle foibe, e dunque degli orrori perpetrati durante la seconda guerra mondiale. Non contento, lo scrittore si spinge tra mille pericoli e difficoltà alle isole Lofoten. E da lì in Groenlandia, dove i ghiacci si rivelano essere una preziosa memoria storica.

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La meraviglia può stare sotto i nostri piedi… E non lo sapevamo!

«Ho iniziato a scrivere come poeta, ma un poeta adolescente, pessimo. E poi ho studiato il rapporto tra poesia e scienza, a Oxford, per il dottorato, e ho scritto la mia tesi sul rapporto tra conoscenze scientifiche e conoscenze poetiche. È un tema questo che occupa il mio pensiero da tanto tempo e “Underland” è forse il libro in cui diventa più evidente che poesia e scienza non sono agli antipodi, ma anzi sono intrecciate. I fisici della materia oscura, per me, sono sia fedeli di una religione che poeti dell’universo. Scienza e poesia trasformano il mondo, rendendolo ancora più meraviglioso».

Questo libro sarebbe piaciuto molto a due scrittori italiani che tra i pochi sono riusciti a combinare magistralmente scienza e letteratura: Primo Levi, il quale fantasticava di un linguaggio con cui comunicare con le piante e con gli animali. E Italo Calvino, il quale lavorava con una sorta di codice binario e non concepiva il sopra senza il sotto, il fuori senza il dentro, il recto senza il verso. Molto calviniana è la tua idea che per capire la luce devi essere sepolto nell’oscurità più profonda.

«Calvino e Levi sono i due scrittori italiani, oltre a Dante, più importanti per me. Ho letto Levi e Calvino con avidità quand’ero un giovane studente a Cambridge e a Oxford. Ambedue hanno avuto un’influenza sulla mia immaginazione. “Il sistema periodico” di Levi soprattutto e, in particolare, il racconto - mi sembra che fosse “Ferro” - che contiene l’episodio in cui si mangia la carne dell’orso. Levi era un appassionato alpinista, come sapete, e anch’io sono cresciuto come alpinista. E “Il Barone Rampante” di Calvino, il barone sugli alberi, è un testo per me fondamentale, con la sua combinazione di fantasia, di ecologia, di cosmicomiche. Per non parlare poi delle città invisibili: in “Underland” compare quel testo come pensiero chiave sulle nostre città, che sono diventate sempre più verticali, si estendono verso il basso, nelle interiora della Terra e puntano verso l’alto, verso i satelliti nello spazio che ne alimentano le infrastrutture informatiche».

Tu sei l’esatto contrario del pallido scrittore sedentario che non si muove dalla sua scrivania. Da dove è nata questa passione per l’avventura, o per meglio dire, per la conoscenza attraverso il movimento?

«Conoscenza attraverso il movimento, ben detto: i nostri corpi sono tecnologie, sono strumenti della conoscenza e conoscono in modi in cui la mente da sola non può conoscere. Mi ha sempre interessato il modo in cui la conoscenza può essere sia legata al luogo, sia sensibile al movimento. Sono nato in una famiglia di alpinisti, di appassionati della montagna, come molti italiani. Fin da bambino ho imparato ad avere confidenza con le montagne e con le colline. Ho imparato presto a leggere una cartina, a montare una tenda. Come si sale e come si scende, in montagna. Credo che il coraggio e la stupidità a volte vadano insieme, e a volte anch’io mi sono comportato da stupido. Ma in realtà ora sono molto prudente perché amo la mia famiglia. Sono contrario a rischiare. Amo davvero i paesaggi selvaggi, e le montagne entrano sempre nei miei libri».

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Mi ha molto colpito l’etimo della parola umano che tu ricordi. “Humanitas”viene da “humus”, dunque ciò che distingue gli uomini è il fatto che affidano i loro cari all’ “humus” come a una specie di secondo utero. Ma anche umile viene da “humus”: dovremmo imparare a essere più umili.

«Sono molto affascinato dalla lingua, che ha appunto il suo “Underland”, il suo sotterraneo di etimologia e di conoscenze storiche che stanno sotto la superficie. Tanti dei nostri verbi in inglese ricollegano la conoscenza alla terra: “disclose”, “reveal”, “excavate”, “understand”, che significano schiudere, rivelare, scavare, capire. Tutto è collegato all’idea di portare la luce, perché il sotterraneo contiene conoscenza. E ciò va in direzione opposta alla nostra comune idea del sottosuolo: lo consideriamo un ventre della terra oscuro, ristretto, anche accecante. Invece, secondo me si tratta di un mondo ricco di conoscenza e di sorprese. In effetti, si tratta di un’etimologia contestata che ricollega “umano” a “humus”, proposta da Vico in una delle sue tesi sulla storia. Però a me piace molto, mi sembra molto convincente perché cerca di farci ricordare che, anche prima che diventassimo anatomicamente esseri umani moderni, seppellivamo i nostri morti nella terra. L’homo natalensis, un ominide molto antico, seppelliva i morti nella profondità della terra. Trovo questa cosa davvero commovente. Nella parte più sotterranea, nella terra che sta in profondità, abbiamo risposto ciò che amiamo e che vogliamo salvare, ma anche ciò che temiamo e che vogliamo perdere. E la lingua ci conserva la memoria di quelle antiche pratiche».

Per ascoltare il respiro della nascita dell’universo, dici, dovete venire sottoterra, perché la terra scherma e filtra tutte le interferenze che ci impediscono di cogliere la misteriosa entità che tiene insieme il cosmo, la materia oscura. Questo lavoro ha anche implicazioni metafisiche. In questi lavori si può trovare una qualche divinità, o la si perde?

«Facevo questa stessa conversazione ieri con mio figlio, che ha otto anni. Voleva sapere cosa fosse la materia oscura, perché ne avevo parlato. Ho cercato di spiegargli che i nostri corpi vengono attraversati ogni giorno da triliardi di neutrini, una sorta di particelle fantasma, e quasi certamente da particelle di materia oscura. E tutto questo mondo di materia che ci circonda, in cui camminiamo e che ci permette di esistere, è quasi irrilevante rispetto a quelle altre particelle. Sono rimasto affascinato a guardarlo mentre cercava di capire questo concetto. È una nozione che colpisce moltissimo, l’idea che la fisica e la religione perseguano ambedue la scoperta di una presenza ineffabile, che non si rivela alle forme usuali dell’indagine. Mi colpisce molto il pensiero che serve andare sottoterra per vedere più chiaramente, per ascoltare il sussurro dell’universo. A me questo sembra una forma di preghiera».

E parliamo del Wood Wide Web, l’internet del bosco. Negli ultimi decenni ci sono stati scienziati come Suzanne Simard e poi Merlin Sheldrake, che compare anche nel tuo libro, i quali hanno dimostrato che la foresta, grazie a una rete fungina, alle “ife”, che sono le barbette che crescono alle base dei funghi, è di fatto un super organismo collettivo in cui tutto si tiene, capace di un suo linguaggio complesso, raffinato, radicalmente diverso dal nostro, che dobbiamo sforzarci di decifrare. Pensare come i funghi ci aiuta a pensare la storia non come a una freccia o a una spirale che torna su se stessa, ma come una rete che si dirama e congiunge in molte direzioni: un sistema di relazioni intricate. Ma la rete invisibile di micorriza ha anche un messaggio politico: ci possiamo salvare solo se mettiamo in atto politiche di mutuo soccorso. Il mutualismo biologico, invece della competizione, conviene a tutti. Il bosco ha una saggezza cui gli uomini devono ancora arrivare.

«Il Wood Wide Web, l’Internet del bosco, è un’idea potente: una volta che la incontri, ti cambia proprio il terreno su cui cammini. Cambia la foresta che attraversi, per sempre. Voglio riprendere un tuo commento precedente: le culture e comunità indigene ne erano consapevoli. Per loro era evidente che la foresta avesse un pensiero, che gli alberi comunicassero tra di loro. In un certo senso, la scienza occidentale ha semplicemente apposto il suo imprimatur sopra una percezione che è molto più antica della scienza moderna. E sono affascinato, in effetti, da ciò che tu chiami le implicazioni politiche di tutto questo. Un motivo è che questa idea, che è stata scoperta in termini scientifici da Susan Simard, sebbene molti altri ne abbiano scritto da allora, è davvero sconvolgente per noi. Noi siamo alla ricerca di un modo migliore di essere in questo regno alieno dei funghi e del mutualismo che condivide con gli alberi. Credo che durante questa pandemia abbiamo visto sia il peggio che il meglio dell’umanità, e il meglio è stato senz’altro un vasto, complesso mutualismo, dove le persone aiutano coloro in cui non hanno alcun interesse o rapporto pregresso o parentela. Abbiamo visto meraviglie, reti di generosità, di dolcezza, di gentilezza, di solidarietà. Ma abbiamo visto anche il peggio. Proprio ora l’umanità sta cercando di capire come condividere i vaccini, come creare un mutualismo globale per il bene dell’umanità intera, quindi gli alberi oggi - come sempre - hanno una lezione da darci».

Tu ti muovi nel tempo profondo delle ere geologiche, dei milioni e miliardi di anni. Questo fa un po’ impressione, in un’epoca in cui viviamo appiattiti su un presente che non va più in là della prossima settimana, anche in politica. La visione dei politici non va oltre il trimestre, del piccolo utile che possono ricavare dalle prossime elezioni.

«Sono completamente d’accordo. La prospettiva temporale delle nostre strutture politiche non è adatta alla visione del tempo profondo di cui avremmo bisogno per salvarci. Mi interesso e cerco di valutare le istituzioni politiche, per capire in quali settori siano disposti a pensare con un pensiero più lungo, più profondo. Un esempio può essere il Galles, dove si è approvata la prima legge a beneficio delle generazioni del futuro: il parlamento gallese ha introdotto una legge che prevede azioni a lungo termine, a 30-50 anni da oggi. Non è ancora la visione del tempo profondo, ma si tratta di un passo nella direzione giusta. Oppure penso a Biden che, appena eletto, ha riportato gli Stati Uniti nell’Accordo di Parigi sul clima. Biden sembrava dover essere un presidente moderato, invece ha delle politiche molto radicali e questo ci fa sperare per il futuro, per il tempo più profondo: sarà forse possibile scongiurare il disastro».

Vent’anni fa il chimico dell’atmosfera Paul Crutzen ha coniato il termine “Antropocene” per designare l’epoca in cui viviamo segnata dall’iperattività dell’uomo, che ha inciso e incide pesantemente sugli equilibri naturali, mettendoli a rischio. A te questa etichetta non piace…Dobbiamo trasformare l’Antropocene in un “Simbiocene”?

«La nozione di Simbiocene è di Glenn Albrecht, eco-filosofo e filosofo linguista australiano. Come si capisce dall’origine etimologica fa riferimento al mutualismo, alla necessità di uscire da un capitalismo consumistico, rapace, per entrare in un’era di mutualismo, sostenibilità, nelle relazioni con umani e non-umani. Un sogno meraviglioso, ma quanto sarà difficile realizzarlo! Il termine Antropocene, secondo me, crea scandalo e questo può essere utile. Significa che, come specie, lasceremo una traccia sulla Terra che sarà leggibile per milioni di anni nella stratificazione delle rocce. Il problema è che la traccia, la firma che lasceremo, non sarà una bella traccia: radionuclidi, estinzioni di massa, ridistribuzione del suolo, ceneri volanti, l’uranio 235. Non è una bella eredità quella che lasceremo. Ma la nozione che noi siamo una specie che lascerà un retaggio è potente, perché è scioccante. Quello che non mi piace del termine è che generalizza. Antropocene sembra indicare che tutti gli “antropoi” hanno uguali responsabilità. Non è vero. Vorrei un termine che ci infondesse più speranza».