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Santarcangelo, dove anche un attore arabo può recitare in un western

di Angiola Codacci-Pisanelli   22 giugno 2021

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La rassegna di teatro d'avanguardia torna dall'8 al 18 luglio. Con spettacoli multiformi e multiculturali. Come “Gli altri”, atto d'accusa ironico e pungente contro il colonialismo nella recitazione. Dalla newsletter de L’Espresso sulla galassia della cultura araba

«In Tunisia facevo l'attore, da quando sono arrivato in Italia faccio l'attore arabo». È in questa battuta di Rabii Brahim il senso de “Gli altri/الاخرين” (si pronuncia “Lokhrin”), ultimo lavoro del collettivo italo-tunisino Corps Citoyen in programma l'8 luglio, giorno di apertura della nuova edizione del festival di Santarcangelo di Romagna. Uno spettacolo che fa vedere quanto sia limitato oggi nel nostro Paese l'orizzonte professionale di un attore di origine araba, e quindi l'orizzonte della vita quotidiana di un comune cittadino nella stessa condizione. Non spererai mica di recitare in un western, o di girare uno spot pubblicitario, con quella faccia da Maghreb? Non spererai mica di essere un “Citoyen” come gli altri?

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Intitolata “Futuro Fantastico (II movimento). Festival mutaforme di meduse, cyborg e specie compagne”, la rassegna diretta da Enrico Casagrande e Daniela Nicolò di Motus proporrà in undici giorni un fittissimo programma di spettacoli che uniscono al teatro arte, cinema, musica, letteratura e antropologia realizzati da artisti provenienti da tutto il mondo: da “Signals from future” della taiwanese Betty Apple alle “Climatic dances” della messicana Amanda Piña, dal “Terzo Reich” di Romeo Castellucci agli “Esercizi di vita all’aria aperta” con venti adolescenti romagnoli inseriti nella “non-scuola” del Teatro delle Albe. Una commistione di alto e basso che ne “Gli altri” coinvolge codici narrativi e scenici: recitazione e filmati, cinema e spot pubblicitari, fiction e documentario. Ne abbiamo parlato con Anna Serlenga, anima italiana del collettivo.

Cosa vedremo ne “Gli altri”?

«Con Bruna Bonanno e Manuel D'Onofrio abbiamo costruito una macchina narrativa che è un provino continuo, attraversa generi diversi e mostra i limiti dei ruoli assegnati ad attori di origine araba o di presunta cultura musulmana. L'attore protagonista si presenta con proposte costruttive ma la regista – che sono io – le rifiuta tutte con il tipico giudizio di una produzione occidentale bianca. C'è un gioco tra realtà e finzione: cose che sembrano inventate e surreali sono materiale documentale, quindi sono successe davvero, e viceversa».

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Lo spunto è autobiografico?

«In effetti da quando Rabii lavora qui in Italia ha rifiutato molte parti piene di stereotipi: terroristi, spacciatori, assassini, che parlavano un italiano da macchietta... Con “Montalbano” è andata meglio: almeno lì non era l'assassino! È un dispositivo di potere che si articola in tutti gli ambiti della società. Ed è una situazione talmente endemica che non è neanche percepita come problematica... Nel nostro spettacolo noi mostriamo come funziona nel mondo dello spettacolo. Ma questo dispositivo di potere riguarda tutti gli ambiti della società. Ci occupiamo di quello che conosciamo meglio, il mondo della recitazione in Italia, e della società italiana di oggi. Però lo spettacolo si allarga a esperienze diverse: abbiamo chiesto ad amici afrodiscendenti che abitano in vari paesi di partecipare al nostro finto casting, e le loro testimonianze sono molto simili: sembrano scritte apposta per lo spettacolo e invece sono spontanee. E questo lavoro continuerà: aggiungeremo allo spettacolo altri video con le esperienze raccolte nei vari Paesi in cui lavoreremo».

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Come è nato il collettivo Corps Citoyen?

«Sono andata in Tunisia nel 2013 per lavorare a un dottorato sul rapporto tra teatro e rivoluzione nelle giovani generazioni di attori. Con Brahim, Saoussen Babba e Ayman Mejri abbiamo prodotto il nostro primo lavoro, “Mouvma”, che cerca di ribaltare la prospettiva orientalista facendo raccontare qualcosa di diverso ad attori che erano però anche testimoni in prima persona della situazione. Con altri colleghi dal 2015 abbiamo cominciato a fare un lavoro di creazione partecipata per costruire una narrativa diversa sul rapporto tra le sponde del Mediterraneo. Abbiamo lavorato co giovani tunisini sulla migrazione osservata attraverso la lente del desiderio di cambiare la propria vita. Il centro del nostro lavoro è sempre stato il corpo come uno degli spazi di espressione privilegiata e la necessità di lavorare insieme, che vuol dire non “insegnare”, non imporre nulla dall'alto. È questo il limite che vedo in altri progetti che possono sembrare simili al nostro, almeno qui in Italia: un voler “dar voce” agli altri che è spia di un forte paternalismo coloniale: si fa “teatro con” i rifugiati o - tra virgolettissime - “gli immigrati” (che è una parola che io non uso) ma ecco, esperimenti del genere mi sembrano quasi più pericolosi del teatro classico, che almeno si fa i fatti suoi. Quando sono tornata, dopo essere stata via sette anni, ho avuto l'impressione che il dibattito sulla situazione post-coloniale in Italia fosse profondamente arretrato».

Ora però c'è una maggiore attenzione alla cultura multietnica – almeno a teatro, se non in letteratura.

«Negli ultimi anni le cose stanno cambiando grazie a tante voci di scrittori e scrittrici – penso a Esperance Hakuzwimana Ripanti, a Djarah Kan, a Oiza Obasuyi – che stanno creando spazio a nome della comunità di nuovi italiani, con prese di posizione non solo culturali ma politiche. Lei dice che gli scrittori sono trascurati, ma io non saprei citare un regista afrodiscendente che abbia vinto un premio o che sia rappresntato in un festival importante, a parte Santarcangelo che anche grazie a Motus sta facendo un lavoro unico. Io ho fiducia, quello che cerchiamo di fare è farci forza a vicenda lavorando in rete, contro il potere coloniale che si annida in tanti ambiti del nostro vivere, dal linguaggio alla produzione culturale. Uno scarto c'è, il cambiamento è iniziato ma vedremo i risultati tra un po' di tempo».

Voi di Corps Citoyen avete un altro progetto, Milano Mediterranea. Di cosa si tratta?

«Quando siamo tornati dalla Tunisia abbiamo sentito il bisogno di interrogarci sul nostro essere in Italia, sulla città in cui viviamo. Quindi oltre a Corps Citoyen, che continua a esistere come formazione artistica de-coloniale, abbiamo fondato Milano Mediterranea, più legato a un territorio specifico, il quartiere Giambellino. È qui che si terrà il festival Twiza, sabato 26 e domenica 27 giugno: con spettacoli, dibattiti, concerti e “momenti social but distant di relax e festa”. Fin dall'inizio il progetto ha coinvolto gli abitanti, che con un comitato di quartiere hanno scelto con noi i tre ospiti delle residenze artistiche di quest'anno: Giorgia Ohnesian Nardin, Emigrania e Mombao. I giovani poi hanno partecipato al laboratorio di formazione tecnica e fonica e a quello di creazione musicale. Dovevamo scrivere un'opera trap comunitaria ma la pandemia ci ha rallentati – però non abbiamo rinunciato, il lavoro è ancora in corso!».