Narrativa e memoria
Lalla Romano, la signora dell’autofiction
A vent’anni dalla morte vale la pena riscoprire la scrittrice. Che ha scavato nel suo mondo, privato e intellettuale. Con precisione e spietatezza
«Di fatto fin dai suoi primi libri lettori appassionati le mandavano lettere commoventissime; alcuni pubblicano articoli, se è il loro mestiere. E l’impressione curiosa è che tutti scrivano con una sorta di ammirato stupore, come per una scoperta. E lei pensa appunto di non essere stata ancora scoperta». Scriveva questo, di sé, alla fine degli anni Ottanta. E se fosse ancora così? Se ancora fosse da scoprire, Lalla Romano? Moriva vent’anni fa, dopo avere attraversato il secolo quasi per intero (era nata nel 1906) – e pur avendo vinto un Premio Strega, pubblicando da sempre per Einaudi, collaborando con grandi giornali, ha fatto fatica a smarcarsi da un’immagine di autrice “borghese” china sugli spazi del privato. E invece, scomparsa poco prima dei giorni di Genova e del crollo delle Torri a New York, aveva trovato la sua contemporaneissima strada all’autofiction: senza nemmeno avere bisogno di chiamarla così. «In un libro tutto è vero, niente è vero! Un libro non si legge per controllare»: fingeva di difendersi, quando in verità aveva messo nei suoi libri sé stessa senza reticenze, senza maschere.
Avete presente lo scrittore norvegese Karl Ove Knausgård, che ha dedicato sei ponderosi volumi al racconto capillare della sua esistenza? Quando, via via che vengono pubblicati, parenti e amici cominciano a leggere, non sempre reagiscono bene. Il fratello, alludendo al titolo dell’impresa letteraria, “La mia battaglia”, scrive una email all’autore che comincia così: «La tua battaglia del cazzo». Knausgård racconta anche questo, e liquida l’imbarazzo altrui in questi termini: «La questione è con quale diritto. Il diritto della letteratura? Sì, in questo caso dichiaro che la letteratura è più importante della vita del singolo». Bene. Lalla Romano nel 1969 – era tempo di conflitti generazionali – pubblicò un romanzo sul rapporto difficile con suo figlio, “Le parole tra noi leggere”. Spietato, bellissimo. Il figlio lo lesse. Non ne volle più sapere di sua madre. Quando chiesero alla scrittrice se – sapendo come sarebbe andata a finire – l’avrebbe scritto comunque, lei dopo un brevissimo ma eloquente silenzio disse: «Scrivere è la mia maniera di essere».
Questo per dire che i suoi capelli bianchi vaporosi, la casa nel cuore di Brera, gli articoli sul Corriere potevano fornire un’immagine non a fuoco: inesatta. Graziella/Lalla, cuneese, figlia di un severo geometra, appassionato fotografo (sulla e con la fotografia lei scriverà libri pionieristici anche per l’impianto), frequenta (da pittrice) la Torino di Casorati e di Gobetti, diventa amica di Pavese e di Soldati, milita in Giustizia e Libertà, partigiana nei Gruppi di difesa della donna, scrive poesie che piacciono a Montale, approda alla narrativa, già più che quarantenne, con un “libro di sogni”. Poi, si mette a scavare nel suo mondo: familiare, intellettuale; non esce e non intende uscire da lì, insiste sui frammenti di memoria, e lo fa con una lingua asciutta, scabra, ritmica.
Quando mi imbatto in elogi sperticati (nel più dei casi anche meritati) per scrittrici o scrittori contemporanei di cui si ammira la feroce anamnesi, penso sempre: non conoscono Lalla Romano. Penso: abbiamo ritrovato la grandezza di Annie Ernaux. Giusto. Poi penso: abbiamo avuto Lalla Romano. Ma per pigrizia, per imperituro provincialismo, perché non c’è la moda, la lasciamo lì, come se fosse irrimediabilmente remota. E invece: prendete un libro come “Inseparabile”. Un libro di quaranta anni fa. In copertina c’è un pappagallo disegnato dal nipote dell’autrice. Che è anche il protagonista. I suoi genitori si separano, e Emiliano, naturalmente, soffre. Questo dolore Romano riesce a coglierlo con una precisione quasi angosciante, perché appunto è il dolore di un bambino – che disegna un pappagallo e lo chiama “Inseparabile”. Sono capitoli brevissimi, sincopati.
Quasi mi dispiace pensare che si possa non averlo letto, un libro così. «Certe frasi suonavano così amorose, che mi facevano male come se mi avessero ferita: “Sono Emiliano e sono qui per te”. Ero quasi sempre stanca, soprattutto di emozioni, e spesso piangevo. Quando diceva: “Perché piangi, nonna?” non era bambino, né dio, era pietoso come un uomo». Commuove, e profondamente, senza volerlo fare: «Un giorno mi mostrò un coso di plastilina in forma di topo, irto di grossi chiodi. Era un riccio. La maestra glielo tolse di mano perché, disse, non era finito. Lui si offese, e voleva che andassi a farmelo dare; io vigliaccamente mandai lui. Tornò con la faccia imbrattata di colore, perché aveva pianto. Era furioso. A casa dormì due ore; si svegliò arruffato, mi guardò e disse: “Ciao”. A casa tornava a essere lui».
Quando scrive, verso la fine degli anni Ottanta, della morte del marito Innocenzo, presidente della Banca Commerciale Italiana, costruisce un memoir in due tempi. I quattro anni dell’innamoramento. I quattro mesi dell’agonia. È il suo “Anno del pensiero magico”, il suo “Livelli di vita”; si chiama “Nei mari estremi”. «Il macabro della morte è dunque questo: l’agonia dell’animale. Ho potuto pensarlo di lui! Ma era un pensiero buono: lui non poteva essere disperato. L’infermiere di giorno stava di là; non poteva resistere, disse; lui del mestiere, un uomo giovane che era stato insensibile alla maestà della fine, nei giorni trascorsi. Era troppo lunga, l’agonia. Io sono rimasta; non volevo rinunciare anche solo a un minuto di quella residua terrificante ma anche dolcissima presenza di qualcosa di lui».
Mi piacerebbe che alcuni inadempienti, provinciali e in fondo sempre un po’ misogini cultori delle lettere la leggessero. Sono gli stessi convinti che Natalia Ginzburg sia quella di “Lessico famigliare”, che hanno letto (male) a scuola, e non conoscono che una stilla della gigantesca scrittrice che è. Lo stesso discorso vale per Anna Banti, per Alba de Céspedes, per moltissime altre autrici – intruppate nell’esile capitolo di storie letterarie e antologie sulle scritture delle donne. È un paesaggio straordinario, in larga parte ancora da esplorare. Quando Elsa Morante lesse, di Lalla Romano, “La penombra che abbiamo attraversato” (1964), lo definì «incantata poesia»: il libro si organizza intorno a oggetti, visioni, bagliori del «tempo di prima», senza vera continuità narrativa, per progressive associazioni. Con la stessa libertà con cui, una ventina di anni dopo, recuperando le fotografie scattate dal padre Roberto, realizza “Romanzo di figure”, esperimento inatteso e modernissimo sul rapporto tra parola e immagine, dove la fotografia è testo e la parola illustra: guardando forse a Barthes da lontano; e molto prima di Sebald, di Pamuk, di Teju Cole.
Io non temo il vissuto, ha detto una volta, non temo l’autentico – e vale da epigrafe a un’intera opera. Estesa letteralmente alle soglie del buio, se in “Diario ultimo”, pubblicato postumo, sfida la propria stessa cecità. Raccolte da chi le è stato accanto nei suoi ultimi quindici anni, il fotografo Antonio Ria, le parole – appuntate senza vedere su fogli bianchi, o dettate – evocano passioni non ancora spente (la musica, la poesia); fermano sentimenti, ferite, sconfitte, quotidiani tentativi di rinascita. L’odore di rosmarino, il respiro del mare, il vento e la disperazione, la memoria sempre più fragile, il senso della vita mentre irreparabilmente sfugge. È l’ultimo “io” possibile di Lalla Romano.
In un sorprendente “Autodizionario degli scrittori italiani”, dice di avere ispirato la sua vita a un motto di Flaubert, di cui peraltro ha tradotto splendidamente “Tre racconti” e “L’educazione sentimentale”; quello che dice: siate borghesi nella vita per essere originali nell’arte. Poi, con un filo di ironia, ricorda che al suo primo romanzo un critico disse: se portasse un nome straniero; e anni dopo, come indicando uno svantaggio: se non fosse nata a Demonte… Ma “nata a Demonte” «vuol dire tante cose, e infine l’essenziale. Cioè, la fama e la non-fama, la gloria o la cancellazione o, quel che è peggio, la mediocrità discendono, per lei come chiunque, da come si è, da come si è vissuti».