Filipenko: «La paura è come una persona: con il tempo cambia natura e travolge la gente»

Risvegliando la memoria dello stalinismo, e denunciando le repressioni di oggi, è diventato l’intellettuale di riferimento dell’opposizione bielorussa. I suoi libri passano di mano in mano, dalle carceri alle piazze. E ora arrivano in Italia

I primi giorni del nuovo millennio, mentre nelle sontuose stanze del Cremlino a Mosca Vladimir Putin subentra allo stanco e svogliato presidente Boris Eltsin, a Minsk, in Bielorussia, un ragazzo, un padre single di una bambina di pochi mesi, prende possesso di un nuovo, modesto appartamento. E nota delle inquietanti croci rosse dipinte sulle porte d’ingresso di alcune abitazioni, compresa la sua. Ma ecco che mentre cerca di cancellare il segno, incontra la vicina del pianerottolo. Lei è una vecchia signora - in seguito scopriremo che è nata nel 1910 - si presenta scherzando di non ricordarsi bene il proprio nome, Tatjana Alekseevna, gli dice di soffrire di Alzheimer e che quelle croci rosse le servono per non perdersi nell’edificio. Poi lo invita a casa sua perché ha da raccontargli una storia, «una biografia della paura» e anche di come «la paura può sopraffare un essere umano e cambiargli la vita».

Comincia così il romanzo “Croci rosse” di Sasha Filipenko, scrittore bielorusso, di lingua russa. Filipenko ha 37 anni, oltre a questo libro è autore di “Ex figlio”, e i suoi scritti nel Paese natio sono testi di culto dei giovani che in questi mesi si oppongono al regime di Aleksandr Lukashenko, e sono stati tradotti in tedesco (con successo di pubblico e critica) e in inglese. Insomma, accanto alla Nobel Svetlana Aleksevich (anche lei bielorussa di lingua russa) Filipenko è un intellettuale di riferimento e scrittore di primissima qualità che comincia a essere conosciuto e molto apprezzato in Occidente. “Croci rosse” uscirà in italiano, nell’ottima traduzione di Claudia Zonghetti, a settembre prossimo, per i tipi delle edizioni e/o.

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Al centro della trama, la ricostruzione di una memoria che si vuole rimossa: quella dello stalinismo e delle sue vittime. In breve: Tatjana, nata a Londra in una famiglia di rivoluzionari russi, torna da bambina in Urss, assieme al padre che vuole costruire «un mondo nuovo». Poliglotta, traduttrice, fa parte della nuova élite. Sposa un uomo affascinante che però durante la guerra cade prigioniero dei tedeschi. Lei, impiegata del ministero degli Esteri, scopre il suo nome in un elenco fornito dalla Croce rossa internazionale. Ma Stalin tratta i prigionieri come traditori e lei deve prendere una terribile decisione. Non racconteremo altro se non che finisce male e che nel libro ci sono intere pagine di documenti che l’autore ha trovato negli archivi di Ginevra e che documentano la mancanza di umanità nei confronti dei propri cittadini, da parte dei leader sovietici di allora.


Parliamo con Filipenko via Skype. Lui si trova in Svizzera, con una borsa di studio. Di solito, abita a San Pietroburgo, dove insegna Letteratura russa. «Resto qui fino al primo ottobre, alla scadenza della mia borsa», dice: «Dopo penso di tornare in Russia, le cui autorità, probabilmente, mi consegneranno a quelle bielorusse. È la prassi. L’hanno già fatto con altre persone in odore di opposizione».
Ha paura?
«Penso che tutti abbiamo paura dell’ignoto».
 

In “Croci Rosse” usa un’espressione che, se non fosse terribile, definiremmo bellissima: “la biografia della paura”. Che cos’è?
«Biografia perché come una persona, la paura, con il tempo, cambia natura e muta volto. Mi spiego, studiando la storia sovietica dai giorni del terrore rosso e fino alla morte di Stalin, ho capito come la paura cresceva fino ad arrivare all’apice quando le persone temevano perfino di parlare l’una con l’altra. Proviamo a metterci nei panni di coloro che all’alba vedevano le automobili dei servizi segreti arrivare alle porte del condominio e poi erano felici perché avevano arrestato non loro ma qualcun altro, un vicino di casa. E nel concreto: volevo far vedere come dentro l’animo di Tatjana, la mia protagonista, nasceva e cresceva la paura e come evolveva. Quando arrivò in Urss era una ragazzina fiduciosa nel futuro del comunismo. Ma poi, mano mano che diventava adulta e doveva prendere decisioni importanti, la paura cresceva e la travolgeva. Le racconto una storia di oggi, della mia famiglia».
 

Prego.
«Mia nonna ha vissuto tutta la vita a Minsk. Quando partecipavo alle proteste contro il regime mi diceva: “Non ci andare, fa paura”. Ma io penso che se i miei genitori o lei avessero protestato a loro volta, io oggi non avrei dovuto farlo. E allora, io partecipo alle proteste non perché non ho paura ma perché le generazioni precedenti non l’hanno fatto, per paura».
 

Com’è la situazione in Bielorussia?
«Siamo all’apice della repressione. Ogni giorno vengono arrestate decine di persone. Alcune vengono condannate a 15 anni di reclusione. Arrestano pure i giornalisti. Il regime vuole chiudere la bocca a chi può trasmettere le notizie».
 

Perché scrive in russo e non in bielorusso?
«Perché sono nato in una famiglia di lingua russa. Minsk è una città dove si parla il russo. E poi, la lingua russa non è proprietà esclusiva dei russi. Il russo appartiene anche agli ucraini, ai bielorussi. Infine, il russo è la lingua in cui sogno. Ma lei chiederebbe a uno scrittore di Zurigo perché scrive in tedesco o a uno di Ginevra in francese e a uno di Lugano in italiano?”
 

Non le dicono che deve scrivere in bielorusso per rafforzare l’identità di una nazione?
«Ci sono persone così. Ma per me lingua non significa identità. Dürrenmatt scriveva in tedesco, e allora era uno scrittore tedesco o invece svizzero? E poi, c’è il caso Adam Mickiewicz…».
 

Il più grande poeta polacco di tutti i tempi, vissuto nella prima meta dell’Ottocento, autore del più importante poema scritto mai in polacco, “Pan Tadeusz”…
«Che comincia con il verso “Lituania patria mia”, mentre lui era nato in Bielorussia. Ribadisco: sono uno scrittore bielorusso che scrive in russo, del resto la maggioranza dei bielorussi parla il russo come madrelingua».
 

Torniamo a “Croci rosse”. Perché la memoria è così importante?
«Intanto, il narratore all’inizio rifiuta la memoria della tragedia collettiva perché lui vive la sua tragedia personale».
 

Che non riveleremo.
«La memoria è importante perché in Russia e in Bielorussia la storia viene riscritta in continuazione e la gente non vuole ricordare ciò che è successo. Chi vuole scrivere un romanzo storico, come ho fatto io, negli archivi trova molti file segretati. Prima di venire in Svizzera consultavo un dossier di un archivio russo. Alcune pagine erano coperte da una specie di buste di carta. Si trattava di cose della guerra del 1941. Sono passati 80 anni da allora e ancora e non ci permettono di sapere la verità. Ancora oggi non si può parlare del Patto Ribentropp-Molotov del 1939 e delle conseguenze di quell’accordo (spartizione della Polonia, consegna dei comunisti tedeschi rifugiati in Urss, ai nazisti, Ndr.). In Ucraina gli archivi sono stati aperti: sono 8 milioni di file. Però nessuno vuole conoscere le pagine nere della propria storia. Sarebbe importante invece parlarne».
 

È pericoloso occuparsi della storia?
«In Russia tutto è pericoloso: letteratura, giornalismo, poesia».
 

C’è però tanta nostalgia di Stalin e dell’Urss, ovunque. Lei ne parla nel suo libro ambientato a Minsk. Persone che dicono: certo, c’era Stalin, però siamo andati nello spazio.
«È stupido pensare che per andare nello spazio bisogna rinchiudere nei lager oltre 20 milioni di persone. Abbiamo un neologismo: “Totalgia”, nostalgia di totalitarismo. C’è ignoranza, poca istruzione. Ma poi, siccome molte persone vivono male, sentono il bisogno dell’uomo forte dall’aura del vincitore».
 

La letteratura può rendere il mondo un po’ migliore?
«Di solito dico che la letteratura non può fare niente. È fatica di Sisifo. Sappiamo chi erano Solzhenitsyn, Salamov, Primo Levi. Molto è stato scritto sui lager nazisti e su quelli comunisti. Eppure vediamo persone che professano idee naziste o staliniste. Per questo penso che i libri non hanno molta influenza sul mondo. Però, quest’anno ho avuto il più grande premio letterario della mia vita. Nelle prigioni del mio Paese i miei libri girano di cella in cella e la gente li legge a voce alta. Ecco, quando dico che i libri non hanno influenza, mia moglie mi contraddice e spiega che non posso dirlo sapendo cosa succede con i miei testi nelle carceri. Così sto cambiando parere. Un libro può dare forza nella resistenza al regime. Il libro però è solo un piccolo elemento di una tela gigantesca qual è la nostra vita».
 

Lo scrittore più amato?
«Molti. Cambiano a seconda del momento: Proust, Garcia Marquez, Bykov (uno scrittore russo vivente, Ndr). Amo leggere, in generale».
 

Se io dico: Tolstoj, Kafka, Schulz...
«Rispondo: Tolstoj, Kafka, Dostoevskij. Indispensabili».
 

Però la letteratura ha il potere di cambiare il nostro sguardo su persone che non sono vicine a noi.
«Se ha in mente il fatto che la letteratura suscita empatia nei confronti delle persone malvagie, penso che questo riguardi specificamente la letteratura russa, e in modo del tutto particolare Dostoevskij. La letteratura russa ha compiuto un’operazione pericolosissima perché ha sempre cercato di giustificare cose che non possono essere giustificate. Si cerca di comprendere il Male ma non per combatterlo o perché non si ripeta. Dostoevskij per pagine intere cerca di giustificare Raskolnikov e si domanda perché ha ucciso la vecchia e la sorella. Ma talvolta io penso che il nostro scopo sia invece altro. Dire: questo è il Male, e metterci il punto. Dirlo perché il Male non si ripeta. Se continueremo ad amare il Male saremo sempre sull’orlo dell’abisso».

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