Arabopolis
Ma è anche Storia, femminismo, politica, antropologia. E cronaca: del lockdown e delle migrazioni. Lo dimostra una raccolta di testi di autori legati al mondo islamico. Dalla newsletter de L’Espresso sulla galassia della cultura araba
di Angiola Codacci-Pisanelli
Siamo circondati da cibo ricette e cucina, veniamo da anni di film contest e trasmissioni su chef ristoranti e pasticceri. Sembra impossibile che una rivista letteraria possa dire qualcosa di nuovo sull'argomento, o anche solo riuscire a risvegliare l'attenzione del lettore. E invece ci riesce Arablit, trimestrale di narrativa araba in inglese che intitola “Kitchen” il numero estivo in vendita da pochi giorni.
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I testi scelti dalla poetessa egiziana Nour Kamel, e firmati da alcuni tra i più interessanti autori di lingua araba o della diaspora mondiale, sono prima di tutto letteratura. Parlano di cibo ma soprattutto di persone, esperienze e sentimenti con lo stile e la profondità che lega i grandi autori di ogni lingua e latitudine. E parlano del presente: dietro alla riscoperta del pane, dei dolci o dei piatti più complicati della tradizione familiare c'è, naturalmente, la pandemia, con quelle forme di lockdown che hanno unito in tempi e modi diversi tutti i Paesi.
Alimenti, ricette, tradizioni culinarie diventano prima di tutto Storia. Il cibo è una chiave che dà accesso a pagine poco note e molto affascinanti della vita di popoli del mondo arabo e del Mediterraneo di ieri e di oggi. Un testo come “The making of Syrian American culture” di Zaina Ujayli fa vedere come la creazione dell'identità di un gruppo di immigrati all'inizio del Novecento abbia lasciato tracce, più che sulle pagine dei giornali, nei libri di ricette e nei racconti – soprattutto quelli scritti da donne.
Perché è ovvio prevedere che parlare di cucina e di Storia significhi parlare di storia delle donne, di ruoli di genere, di femminismo. La biografia della nonna di Salma Sherry racconta anche i cambiamenti politici e sociali dell'Egitto degli anni Cinquanta, il boom economico e sociale guidato della triade consumista «cucina bollitore e frigo».
E quando Yasmine Shamma, palestinese trapiantata in Florida, inizia a spiegare quanto sia importante per lei il ricordo degli involtini di foglie di vite fatti da Teta Giselle, la nonna palestinese, il lettore si rende conto a poco a poco del potere che le donne hanno in mano: perché l'identità di un popolo, soprattutto in periodi di guerre e di migrazioni, è ancorata ai piatti tipici. Ma quali uomini arabi saprebbero cucinare gli involtini di foglie di vite, questo piatto dalla difficoltà leggendaria «che ignora ogni confine» e che lega greci, turchi, libanesi, palestinesi, giordani? «Eppure mio marito cucina felicemente ogni giorno», commenta l'autrice, che ammette: «Lui però cucina in modo apolitico».
Meno ovvio è che il cibo porti a parlare di musica: ma in ogni cucina della nonna c'era una radio, e quella radio nel mondo arabo trasmetteva voci di donne, Fairuz del Medio Oriente o l'onnipresente Omm Khaltoum che le radio egiziane lanciavano ogni giorno all'alba, a pranzo e a cena (quasi un richiamo del muezzin laico e molto pop).
Si ride scoprendo il galateo della tavola scritto nel Cinquecento dallo studioso ottomano al-Ghazzi, irresistibile catalogo di sguaiati e golosi. Si resta sgomenti leggendo Moza Almatrooshi dar voce ai vegetali strappati alle piante per finire torturati in padella mentre «le loro urla, i pianti, le grida d'aiuto rimangono inascoltate», una nota animista che sarebbe piaciuta al Leopardi dello Zibaldone. Ci si commuove quando Amira Mousa fa vedere come cucinare sia anche un antidepressivo naturale, un diversivo potente per riuscire a «ignorare ciò che sta oltre le parole» («Ora faccio le tagliatelle», disse mia madre guardando il vuoto poco dopo la morte di mia sorella: le abbiamo mangiate insieme, erano buone).
Il colonialismo materiale e culturale, con la negazione del contributo della civiltà araba alla cultura mondiale, lasciano tracce ovunque: anche nella Storia di quello che gli italiani chiamano “tramezzino”, il mondo occidentale “sandwich” dal nome di un conte inglese ma che, spiega con passione Nawal Nasrallah, ha radici imprescindibili nella penisola araba. Lo avrebbe ideato un rabbino in Mesopotamia, iniziatore di una tradizione che lega gli involtini di pane arabi alla “muffaletta” inventata da un siciliano a New Orleans. Perché il cibo ha il potere di fare allo stesso tempo due cose apparentemente inconciliabili: definire l'identità di un popolo e mostrarne le somiglianze con tutti gli altri.