Oggi prevalgono i prodotti omologati, figli delle scuole di scrittura. Ma la letteratura autentica si sottrae agli schemi obbligati. Lo ha sempre fatto, può riuscirci ancora

In una recente riedizione de “Il Monte Analogo” di René Daumal pubblicata da Adelphi sono state aggiunte alcune pagine inedite dell’autore. Sono ragionamenti, glosse a un testo, che non si sa come mettere a fuoco: è un romanzo? Un trattato filosofico? Una favola? Certo è un testo che Daumal non riuscì a finire, morto troppo giovane, a 36 anni, nel 1944. Ma che non finisca non è molto importante. Non siamo orfani del finale del “Monte Analogo”. Perché le storie non hanno mai veramente un inizio e una fine.

In queste pagine inedite, dentro questo libro dove la montagna e l’alpinismo sono metafore dell’esistenza, Daumal ragiona sui concetti di alto e di basso: «L’alto conosce il basso, il basso non conosce l’alto. Salendo, devi prendere sempre nota delle difficoltà del tuo cammino, finché sali puoi vederle. Nella discesa non le vedrai più, ma saprai che ci sono se le avrai osservate bene».


Da alcuni anni il nostro tempo di osservazione si è ridotto, ed è ormai chiaro che il basso è il problema con cui abbiamo a che fare. Quel basso che non conosce l’alto, come dice Daumal. Ma dobbiamo stare attenti a non banalizzare, e finire in snobismi facili: non parliamo del basso della non qualità, non è il basso della ipotetica decadenza culturale del nostro tempo, non è il basso pop che si vuole elevare ad alto per dimostrare a tutti che non c’è una cultura più importante di un’altra. È un basso che non abbassa niente, ma resta infido, complesso, strano, intellettualmente debilitante, eppure assai appagante. È un basso sofisticato, che procura persino le vertigini, accoglie di continuo temi importanti, alti, culturali, ma è come un centrifugato che rende indistinti gli elementi: non è sintesi di alto e basso, è uno squilibrio di ingredienti scelti per il mercato. Anche se nessuno lo ammette fino in fondo.

 

Funziona o non funziona? Ha successo oppure no? Successo: un sostantivo maschile, che può essere letto anche come il participio passato di succedere. Il successo è l’accaduto. E quello che è accaduto si deve ripetere in quello che si spera riaccada. Nei fatti è il principio delle saghe in più volumi. Ha avuto successo, succederà che abbia ancora successo se si ripeterà la formula. Ma questo è il mercato nella sua forma più brutale e alle volte efficace. La letteratura dovrebbe guardare al mercato distrattamente. I giornali pubblicano di continuo le classifiche dei libri più venduti, ma nessun supplemento letterario pubblica la classifica dei libri più prestati dalle biblioteche: e sono migliaia e migliaia. Vincerebbe Elena Ferrante, come risulta da uno studio di Giovanni Solimine, però sarebbe giusto saperlo.

 

Parliamo di consumi di culturali e non di cultura, di autori e non di testi (spesso assai poco letti). Siamo attratti dalle assenze: da menti che non amavano mostrarsi, Beckett, Ceronetti, Cioran, Pynchon, Salinger, e si potrebbe continuare. Eppure in questo presente di cose che accadono, si ha bisogno di averli, di vederli, di sentirli. Come se gli autori avessero il potere di evocare la bellezza, la complessità più ancora di quando scrivono. Dimenticando che ci sono due tipi di autori: quelli che sono più talentuosi dei propri libri, e quelli che sono meno talentuosi dei propri libri. E di solito i più interessanti sono i secondi. Persone che non mettono assieme dieci parole e che ci hanno lasciato i libri che sappiamo. Immagino Gadda che se ne va in tour per i festival. Chi ha avuto il privilegio di conoscerlo direbbe: impossibile. E valeva anche per Giorgio Manganelli. E per Leonardo Sciascia, grande conversatore, e assai poco incline alle lectio magistralis urbi et orbi. E Alberto Arbasino non era certo un trascinatore di folle, e Giorgio Bassani preferiva contesti piccoli e ristretti.

 

Però è chiaro. Viviamo dentro un processo sempre più estremo di riduzione della complessità, verso una retorica della semplicità che ha qualcosa di straniante, che si aggrappa in tutti i modi a un’idea emozionale della vita. Si tratta di una giusta e auspicabile semplicità, una democratica semplicità. Una semplicità nel raccontare che ambisce alla bellezza, vuole farsi canone, arrivare a una narrativa che si compie nella linearità e nella ripetizione.

 

Gli autori, incoraggiati dal mercato e dal lettore che ormai fatica a riconoscere l’alto, finiscono per dimenticare quello che sanno, e raccontano quello che pensano vogliano sapere i nuovi lettori, quei lettori convinti di essere accolti ogni volta che li si emoziona con un libro, li si intrattiene, li si tiene con sé; attraverso una scrittura consolatoria, un pensiero rispettabile, attraente eppure assente, universale. Sarà come indossare quegli abiti che vestono in una taglia unica: comodi, facili.

 

Ma da quando è accaduto che abbiamo smesso di domandarci cosa sia un romanzo? Da quando la letteratura del presente è diventata un pullulare di regolette di scuole di scrittura, dove a un terzo del libro c’è il primo punto di svolta, a due terzi il secondo, con un risultato che non è mai ingenuo, mai piatto, ma che flirta con una forma evoluta della banalità come un asintoto matematico che si avvicina alla sua curva.

 

In questo alto che è un alto raggiunto con la seggiovia, e un basso che si crede alto, perché la cima è quasi sempre coperta dalle nuvole, ci chiediamo ormai da troppi anni cosa possiamo fare. Se lo chiedono gli editori, i critici che avrebbero bisogno di un manuale su come evitare giudizi di valore applicabili al piatto dello chef stellato, alla prodezza del calciatore, come ai versi di Fëdor Tjutcev tradotti da Tommaso Landolfi; lo fanno gli autori che in quella linea, in quel binario obbligato si muovono avanti e indietro chiedendosi se sia la strada giusta oppure no. Dimenticando che se vuoi uscire dai binari deragli. A meno di non decidere che quella narrativa, che ormai ruota attorno al genere del giallo e del poliziesco, del noir e del legal thriller, e che tradotto significa: avvocati, commissari, poliziotti, investigatori è ormai un capitolo che non riguarda più da tempo la letteratura, ma si tratta di altro.

 

È necessario pensare a qualcosa di diverso. E la strada è quella del saggio che si somma al romanzo, al trattato filosofico, riprendendo altri libri, e altre storie. Come ha fatto Emanuele Trevi nel suo “Due vite” (Neri Pozza). Un libro con cui ha vinto il premio Strega, nonostante un mantra ostinato, che faceva ripetere a critici e lettori: ma non è un romanzo! Già ma cosa è? Non è solo un saggio. Non è solo un libro di memorie. Non è solo un testo poetico. Non è solo un trattato sull’amicizia.

 

Ma noi non le vogliamo le riconoscibilità, non vogliamo taglie uniche, e non le vorrebbero i lettori, e neppure i giurati del premio, che hanno dato la vittoria a quel libro, e al suo autore. Ed è questo il modo di procedere. Uno dei tanti modi che i letterati italiani dovranno cominciare a sperimentare. Essere un letterato significa aprire i libri dei sogni (rigorosamente al plurale) che sono i libri che frequentati, sottolineati, non terminati, oppure più volte riletti. Rinunciando a quell’arte del raccontare che toglie il fiato, o a quelle storie che sono le storie delle scrittrici e degli scrittori che si sentono troppo scrittrici e scrittori. E su questo tema anche Walter Siti ha già detto quello che c’era da dire.


Non è una dichiarazione di estetica letteraria, è il prendere atto che prima o poi arriva un momento, ma è arrivato da anni, per cui non puoi più scrivere come i maestri che ci hanno preceduto, e che ognuno ci metta i suoi. Come arrivò il momento per cui non si poteva scrivere come il Tasso o Giovanni Battista Marino, come Gozzano e D’Annunzio. E persino come Manzoni o Montale. Solo che ora, mala tempora currunt, c’è bisogno di trovare qualcosa di nuovo che non siano quelle praterie del sé che a dirla con T. S. Eliot si ripetono come un tedioso argomento.

 

Alla fine della sua vita, René Daumal, ha scritto: «Così mi ricordai che ero di mestiere un letterato… non parlerò della montagna, ma per mezzo della montagna. Con questa montagna come linguaggio, parlerò di un’altra montagna che è la via che unisce la terra al cielo, e ne parlerò non per rassegnarmi, ma per esortarmi».

 

Chi ha esperienza di manoscritti, chiamiamoli ancora così, anche se il termine giusto sarebbe pdf, che ambiscono alla pubblicazione, si rende conto che c’è una smania di bella scrittura, serrata, ricercata, alle volte leziosa, dentro strutture narrative rigide che guardano al cinema come punto di riferimento. Di solito il risultato è frustrante, se competi sul terreno facile del cinema perdi sempre. E riguardo alla “bella” scrittura (come un tempo si diceva le “belle lettere”) è quasi sempre una forma di imitazione di autori letti e assai ammirati.

 

Eppure mai come ora dobbiamo cercare terre nuove. Sergio Solmi, più di 60 anni fa, scriveva: «Da qualche decennio a questa parte, le opere di maggior significato apparse nel campo del romanzo mostrano caratteri spiccatamente solitari, e non lasciano dopo di sé continuatori ma tutt’al più, epigoni e imitatori». Oggi potremmo concludere affermando che l’unica via di uscita da una formalizzazione della letteratura dentro le gabbie dei generi, ma anche di un certo modo di essere scrittori che è diventato genere a sé, è proprio la ricerca personale, il carattere solitario, la scommessa di un modo di raccontare, che riesce a farsi voce, solo percorrendo sentieri abbandonati troppo presto, e che dobbiamo ritrovare.