Protagonisti

Marco Bellocchio: «Ho inseguito la rivoluzione e poi l’analisi. Non rinnego nulla, ma non ho visto quello che succedeva nella mia famiglia»

di Marco Damilano   19 agosto 2021

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Nell’ultimo film, “Marx può aspettare”, la resa dei conti più intima con la tragedia del fratello suicida. Dalla militanza politica e la psicanalisi collettiva alla ricerca di oggi, tra storia personale e vicenda pubblica. Colloquio con il grande regista

Marco Bellocchio, 82 anni a novembre, è stato premiato con la Palma d’onore a Cannes, ha appena finito di girare la fiction sul rapimento di Aldo Moro “Esterno notte” e si prepara al prossimo film. Ha atteso più di cinquant’anni per la sua resa dei conti personale. Con il fratello gemello Camillo, che si tolse la vita il 27 dicembre 1968 nella città dei Bellocchio, Bobbio, vicino Piacenza. Con la sua famiglia. Con se stesso, la sua storia di intellettuale militante. «Ho inseguito la rivoluzione e poi l’analisi collettiva di Massimo Fagioli. Non rinnego nulla, ma mi hanno allontanato dalla possibilità di capire perché non avevo visto quanto stava succedendo a mio fratello». Il non vedere, il non capire, è il tema del film “Marx può aspettare”, che scatena reazioni inattese: emozione, commozione. La famiglia, dove avviene quasi tutto quello che non è visto, non è capito, non sarà detto né spiegato. Ma anche la possibilità, decenni dopo, di indagare su se stessi. Un film dolorosamente privato, intimo. Ma anche pubblico, politico. Il diario di una generazione che non ha saputo vedere chi restava indietro.
«La tragedia familiare coincide con l’annus mirabilis et horribilis, il ‘68. Io a 29 anni mi sentivo già vecchio rispetto ai giovani rivoluzionari che ne avevano 21. Dopo l’estate ci fu l’uscita dallo spontaneismo e il passaggio dell’organizzazione, io entrai nell’Unione dei comunisti marxisti-leninisti, un maoismo religioso, avevo rinnegato la mia formazione cattolica ma restava dentro di me. Mi agganciò l’intellettuale Luca Meldolesi, che era stato vicino ai Quaderni piacentini di mio fratello Piergiorgio. Ero attratto da una militanza radicale, totale. Il borghese che voleva rieducarsi alla scuola del popolo doveva rinunciare a tutto, doveva spogliarsi dei suoi beni materiali. La povertà al servizio del popolo».


Una radicalità evangelica, più francescana che maoista.
«Alcuni vendettero case e appartamenti, anche se c’è sempre stata una certa mitologia a proposito. Non c’era una polizia segreta che ti controllava, ma era obbligatorio. Io mi limitai a dare denaro, la mia famiglia aveva un patrimonio indiviso, il procuratore era mio fratello Piergiorgio, che era di estrema sinistra, ma con i Quaderni piacentini non ha mai sconfinato nel maoismo, era più vicino a Lotta Continua».


Una famiglia particolare. Lei come regista aveva già sfondato con un film “scandaloso” come “I pugni in tasca”, i suoi fratelli erano un intellettuale, un sindacalista, tutti di successo. E poi Camillo, che non ce la faceva.
«Camillo era in crisi, ma nessuno di noi pensava a una conclusione tragica. Quando passai da Piacenza, qualche mese prima del dramma, provai a spiegargli che eravamo tutti infelici per colpa della nostra matrice borghese. La strada era spogliarsi non solo dei beni materiali, ma anche di una mentalità che ci impediva di cambiare, di trasformarci, di andare verso il popolo che aveva la sapienza. Il popolo non solo produceva, ma aveva l’intelligenza per produrre che gli veniva rubata dal capitalismo, così pensavamo. Lui rispose con un leggero ghigno: “fratello mio, io ho angosce e tormenti talmente grandi che Marx può aspettare”. Fu soffocato da questa angoscia. Dopo la sua morte rimasi un certo periodo a Piacenza a sostenere la recita nei confronti di mia madre, su Camillo è salvo, è in Paradiso, ma la tragedia era in sé, lui si era ammazzato anche contro di lei. Poi tornai a Roma e mi ingaggiai ancora di più nella politica».


L’impegno fu la sua risposta al suicidio di Camillo?
«Se è accaduto questo, mi dissi, devo applicarmi ancora di più alla militanza rivoluzionaria. Feci un film di propaganda per il partito, si chiamava “Paola”, la città calabrese, sulla povertà e il sottosviluppo. Fu interamente finanziato da me, sotto la supervisione dei responsabili. Un altro film con vari registi si intitolò “Viva il primo maggio”. Vivevo a Roma in un villino a Città giardino affittato dal partito per la sezione stampa e propaganda. Il responsabile era Claudio Meldolesi, il fratello di Luca. Il leader era Aldo Brandirali, si facevano riunioni di auto-critica, il riferimento era il libretto rosso di Mao, lì c’era la risposta a tutte le domande, il giusto e lo sbagliato. Era il Vangelo».


Brandirali entrò anni dopo in Comunione e liberazione. Quando lasciò i maoisti?
«A volte venivo accusato di un atteggiamento non abbastanza ottimistico, problematico, depressivo. La mia militanza finì con il 12 dicembre 1969, la bomba di piazza Fontana. Fu come se fosse deflagrato qualcosa anche dentro di me. Capii che c’era qualcosa che mi sfuggiva completamente. Feci l’errore di firmare l’appello degli intellettuali sull’Espresso contro il commissario Luigi Calabresi. Un passo falso compiuto per superficialità, non era serio schierarsi per qualcosa che non conoscevo abbastanza».


Oggi viviamo la stagione opposta. Tutto è liquido, nulla è militanza. Perché ha sentito il bisogno di confessare questa inadeguatezza: è un senso di colpa, un rimorso, un pentimento?
«Il film ha avuto una elaborazione complessa. È un giornale intimo. Il titolo doveva essere “L’urlo”, come quello di Munch, l’urlo di mia madre che quando seppe di Camillo non urlò ma si strappò le vesti. Poi mia moglie Francesca Calvelli mi ha spinto a cambiare idea e a titolare il film “Marx può aspettare”. In tutti questi anni il marxismo c’è stato, ma si è dissolto».


Dopo il maoismo arrivò la psicanalisi di Massimo Fagioli, un’altra esperienza radicale.
«La svolta arrivò attraverso un amico, Piero Natoli, attore e regista, che frequentava l’analisi collettiva di Massimo Fagioli, allora era in via di Villa Massimo a Roma. Andai con una certa prudenza, ma mi coinvolse per un periodo luogo. Di nuovo in modo totalizzante: di lì passava il mio destino. Non frequentavo il mondo del cinema, mi riferirono che di me si parlava come di un artista di talento che si era perduto, si era fatto plagiare. “Il diavolo in corpo” fu un’esperienza unica, di apertura artistica, la scelta di portare Fagioli sul set provocò conflitti enormi ma fu un cortocircuito positivo. Ci furono poi altri due film fagioliani, “La condanna” e “Il sogno della farfalla”, quest’ultimo interamente scritto da Fagioli. Scattò in me quanto era successo con i maoisti. Non mi sentii libero e ripresi la mia autonomia».


Quale fu il momento di rottura?
«Non rinnego nulla. Ho continuato a seguire l’analisi collettiva per alcuni anni, ma con un allontanamento progressivo. Mi colpivano le interpretazioni dei sogni, le connessioni. Spesso Fagioli ripeteva: Freud è un imbecille. Io non riuscivo, non mi apparteneva questo modo. Non fui cacciato, a un certo punto me ne andai. Mi diedero a Venezia il Leone alla carriera, non frequentavo più l’analisi collettiva, tra i ringraziamenti non citai Fagioli e lui trovò la cosa orrenda, me lo disse nella nostra ultima telefonata. Ma ogni ideologia e ogni fede limitano l’arte».


Eppure tutto il suo percorso artistico è l’incontro con il radicalismo.
«Io mi definisco ora un rivoluzionario moderato. Per dire che Freud è un imbecille devi avere una certezza assoluta, io non l’avevo. In questo mi è rimasta la mentalità cattolica».

 

In “Marx può aspettare” affida lo sguardo esterno alla sua famiglia a Luigi Cancrini e padre Virginio Fantuzzi, uno psichiatra e un prete gesuita. Perché?
«Avevo bisogno di parole semplici, non dominate dalla correttezza assoluta di un certo pensiero. Ho preferito una conversazione più familiare. Padre Fantuzzi, con moderazione, mi vedeva più credente di quanto io non sia».


Nel film dice che ha visto a passare la sua vita sul grande schermo come sulla grata del confessionale.
«Mi ha assolto e preso su di sé la penitenza che mi ha risparmiato. E ha visto in me tracce di cattolicesimo. Per me la fede, come dice Ratzinger, è un assurdo. Io non mi faccio domande sull’al di là e neppure dico che se c’è qualcosa dopo, meglio così, mi sembra superficiale. Non ho immagini come quella di mia sorella Letizia che vorrebbe rivedere i nostri genitori e i fratelli».


E lei? Nella scena finale vede correre Camillo, giovane, in tuta. Ricorda molto la passeggiata di Aldo Moro in “Buongiorno Notte”, la speranza di una realtà diversa in cui le Brigate rosse lo hanno liberato e non ucciso.
«Un sogno di libertà. Ma io non spero di rivedere Camillo dopo la morte».


Nel suo cinema ha attraversato le grandi narrazioni del Novecento: il comunismo, la psicanalisi e anche il cristianesimo radicale contrapposto al cattolicesimo borghese. Ora che queste narrazioni non ci sono più che spazio resta per raccontare?
«Il racconto di noi stessi. La famiglia. Le piccole cose quotidiane di Bobbio. Sto scrivendo un film sulla storia del rapimento e della conversione di Edgardo Mortara. C’è l’oppressione, il crollo del regno del papa Pio IX, ma anche il mistero della conversione. Mi sto interrogando su come raccontarlo. Questi temi, sprofondati nell’Ottocento, si mescolano con la mia vita, i miei ricordi, la mia esistenza».


“Marx può aspettare” ci pone la questione del non-vedere. Per un regista è la sfida più grande: far vedere quello che non vediamo. Ma lei va oltre. Parla di sé: è lei che non ha visto, lei che non ha capito il gemello Camillo. Ci sono le donne che depongono il corpo dopo il suicidio, c’è la fidanzata Angela, anche lei non è stata vista da voi fratelli Bellocchio, lo ricorda la sorella Giovanna.
«Io mi accontenterei almeno di far intravvedere. È la domanda che mi muove: perché non ho visto, perché non ho capito. A volte c’è la fortuna di incontrare qualcuno che vede. La famiglia è il luogo dove il non vedere diventa più drammatico. Nel caso di Camillo sapevamo di un disagio, ma pensavamo che si fosse sistemato perché aveva aperto una palestra, invece non gliene fregava nulla. Non aver visto, non aver visto abbastanza, aver sottovalutato. In quel deserto, in questa arida infelicità, ognuno cercava di sopravvivere. Io pensavo sempre ad andare lontano. Il filo della famiglia è emerso in me solo grazie al passare del tempo, altrimenti sarebbe rimasto nascosto per sempre».


Ha appena finito le riprese della serie “Esterno notte”, dopo “Buongiorno notte” del 2003. È l’altra faccia di “Marx può aspettare”. Qui il giornale intimo dentro la storia, lì il racconto di sogni, desideri, incubi dei personaggi della storia che noi non vediamo.
«Nella serie mi chiedo: cosa facevano i protagonisti nel frattempo, mentre la storia accadeva? L’idea è capovolgere il campo rispetto a “Buongiorno notte”, fare il controcampo, vedere personaggi come Cossiga, il papa, i terroristi, Eleonora Moro a casa loro. E poi bisogna prendere posizione, non si può non prendere posizione».


In “Buongiorno Notte” Moro appare come un padre ucciso dai figli, il parricidio della Repubblica.
«È vero, infatti dedicai il film a mio padre, fu per me una riconciliazione. Da alcune voci della sinistra, per esempio Goffredo Fofi, fui attaccato per questo, fu respinta questa immagine. Altri invece ebbero una reazione di grande coinvolgimento».


La storia italiana è una storia senza padri? O un continuo affidarsi a governanti paternalisti?
«Per mia madre Mussolini a un certo punto era un salvatore. Oggi anche l’uomo forte deve essere fortemente democratico. Nessuno osa criticare Draghi o Mattarella, figure iper-democratiche, accettate dalla maggioranza. A confronto, Salvini è fragile, la Meloni parla sicura di sé ma nessuno ha capito se è favore del green pass o contraria. Il Pd ha più democristiani che comunisti. Il Movimento 5 Stelle sopravvive per revisionismo, le istanze delle origini sono sparite. Anche la Chiesa è svanita, quello che dice il papa Francesco non viene applicato».


Non le è venuta la voglia di fare un lavoro sull’Italia contemporanea?
«Ai tempi del berlusconismo imperante avevo scritto un soggetto intitolato “Italia mia”. Immaginavo un grande fratello iper-cattolico, la riunione in un convento di ragazze che dovevano dimostrare di possedere una fede assoluta. Nel finale un presidente voleva sedurre una di loro, Giuditta, lei andava a incontrarlo per ucciderlo. Come la Giuditta della Bibbia con Oloferne».


Perché non lo ha realizzato?
«Nessuno volle farlo e lasciai perdere».


È la conferma che il racconto dell’Italia al cinema è quasi inesistente.
«Il racconto dell’Italia era possibile quando il cinema era all’opposizione».


E ora è al potere?
«Mario Monicelli disse: non abbiamo più capito nulla dell’Italia quando abbiamo smesso di prendere l’autobus. La grandissima satira e il grande cinema di denuncia civile erano legati a una stagione in cui c’era l’opposizione. Le nuove generazioni hanno dentro una rabbia più giovane, tocca a loro intervenire. La politica che ho attraversato io non c’è più».