I lati più oscuri dell’amore materno nel film coreano di Bong Joon-ho

Madre, prova preziosa e disturbante del regista di Parasite

L’altra faccia di “Psycho” è un gran film coreano del 2009 in cui brillava già al meglio il talento del regista di “Parasite”. Formalmente è un giallo, con un figlio tonto accusato di aver ucciso una ragazza molto chiacchierata e una strana madre coraggio pronta a tutto per scagionarlo, anche a condurre indagini personali quando si rende conto che né la polizia né il grande avvocato calato in provincia muoveranno un dito in difesa di quel ragazzo che in certo modo è il colpevole ideale. Di fatto però è molto più di un giallo. È la storia di una mamma senza nome (basta quella qualifica perentoria e assoluta: Madre, appunto) che fa di un’anonima donnetta di campagna l’eroina di una tragedia greca. Greca ma soprattutto coreana, e il cortocircuito è più disturbante di quanto possa sembrare.


È il ritratto di un legame forte quanto malato che affiora per piccoli tocchi improvvisi, gesti imprevedibili, ricordi inattesi e sconvolgenti, anche se sempre visti in quella chiave quasi grottesca che è un po’ la cifra di Bong Joon-ho. Ma ancor prima è un film tutto scritto sui corpi, i volti, i movimenti di quei personaggi così platealmente patologici. A partire dal balletto misterioso su cui (genialmente) si apre il film: che cosa celebra quella madre ancora senza storia (la portentosa Kim Hye-ja) danzando in un campo di grano? Di cosa si compiacciono, o si stupiscono, quei passi così goffi e insieme puntuali? Di cosa ragiona con se stessa, quali sentimenti la guidano, attraverso cosa è passata l’autrice di quella bizzarra coreografia?


Se «il movimento non mente», come diceva Martha Graham, c’è una verità dietro quella danza. Ma ci vorrà l’intero film per mettere a fuoco quella verità, in un susseguirsi di personaggi, false piste, rivelazioni anche interiori, che ha la struttura del giallo e la concretezza beffarda del referto. Compaiono mazze da golf sospette, poliziotti spacconi, cadaveri esibiti come segnali, aghi da agopuntura che sono uno strumento di lavoro, ma anche palesi sostituti di un eros malato. Solo Haneke (“La pianista”) si era spinto così lontano nel descrivere il nodo perverso che lega una creatura a chi l’ha generata. Qui però in primo piano c’è la madre, non il figlio, ed è questo a rendere il film di Bong Joon-ho, con tutta la sua mirabolante varietà di toni, così prezioso. E disturbante.

“MADRE”
di Bong Joon-ho
Corea del Sud, 128’

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