La vera letteratura si sottrae agli schemi e oggi rompe le gabbie dei generi, ha scritto Roberto Cotroneo. Ma in Italia prevalgono i libri omologati, dettati dalle scuole di scrittura. “No, sono i media che vedono solo quelli”, replica a L’Espresso lo scrittore Antonio Moresco

“Romanzi senza fine”, l’articolo di Roberto Cotroneo, per anni responsabile delle pagine culturali dell’Espresso e ora editor narrativa italiana di Neri Pozza, pubblicato sul numero 34 , pone il tema di cosa sia diventato il romanzo, di fronte a una letteratura che è un pullulare di regolette di scuole di scrittura . Bisogna cercare terre nuove, suggerisce l’autore. Come fa Emanuele Trevi in “Due vite”.

 

Caro Marco Damilano,

 

scrivo a lei in qualità di direttore dell’Espresso, un settimanale che leggo con grande interesse ogni settimana, per dire la mia su un articolo apparso sul numero 34 del suo giornale e che mi ha fatto venire il torcibudella.

 

Si tratta dell’ennesimo articolo (in questo caso di Roberto Cotroneo) dove si sciorina il solito insiemistico mantra sul presunto stato della nostra letteratura.


Cito alcune frasi: «Gli autori, incoraggiati dal mercato e dal lettore che ormai fatica a riconoscere l’alto, finiscono per dimenticare quello che sanno, e raccontano quello che pensano vogliano sapere i nuovi lettori, quei lettori convinti di essere accolti ogni volta che li si emoziona con un libro, li si intrattiene, li si tiene con sé; attraverso una scrittura consolatoria, un pensiero rispettabile, attraente eppure assente, universale. Sarà come indossare quegli abiti che vestono in una taglia unica: comodi, facili. Ma da quando è accaduto che abbiamo (abbiamo chi? a chi si riferisce questa prima persona plurale?) smesso di domandarci cosa sia un romanzo? Da quando la letteratura del presente è diventata un pullulare di regolette di scuola di scrittura...?» Eccetera eccetera. Osservazioni che contengono delle verità, ma che in questo come in altri casi sono anche tarate su luoghi comuni, su un certo gusto tutto italiano all’autocommiserazione, al riconoscimento e all’affratellamento al ribasso, sull’incapacità di vedere ciò che esorbita da questo quadro e la vera configurazione del paesaggio (con le stesse logiche, in altri secoli, non si sarebbe neppure registrata la presenza di autori come Vico, Leopardi... che adesso caratterizzano le loro epoche).

Sono anni che leggo cose simili e sono anni che mi incazzo e mi dispero per questa attitudine coloniale, fratricida e suicida dei letterati italiani, che cancella o invisibilizza una parte vivente del quadro per poter continuare a ripetere questo refrain. Qualche volta, stupidamente, ho risposto, anche se so che non serve a niente, anche se so che persino nella Russia dell’Ottocento (negli anni in cui scrivevano Gogol, Tolstoj, Dostoevskij, Turgenev, Gončarov, Lermontov... ) c’erano critici e letterati russi (ne parla Dostoevskij nel suo “Diario di uno scrittore”) che lamentavano l’assenza di scrittori nel proprio tempo: «Vagando nei deserti della letteratura russa contemporanea...».

 

Anche se so che a queste cose bisognerebbe reagire solo con il silenzio, con un’alzata di spalle o con una risata, perché, oltre a tutto il resto, la cosa buffa è che ciò di cui il nostro Cotroneo lamenta la mancanza («Il carattere solitario, la scommessa di un modo di raccontare che riesce a farsi voce, percorrendo sentieri abbandonati...») mi pare contraddistingua fin dall’inizio la mia vita e la mia opera di scrittore. E allora, caro direttore, faccia conto che questo piccolo scritto che le mando sia anche una bella risata.


E poi - mi si potrebbe obiettare - che senso ha parlare di queste cose mentre è in corso una pandemia, migrazioni di popoli, surriscaldamento... Mentre a Kabul la gente fugge aggrappata agli aerei. Invece ha senso, ha senso direi proprio e soprattutto adesso, in questi anni in cui, nel campo nevralgico e prefigurativo dell’immaginario e dell’invenzione, molti hanno tirato i remi in barca e anche una parte degli editori non ci crede più, fa un altro mestiere, si è arresa allo spirito del tempo, ha un’idea sociologica e ancillare della letteratura, nasconde dietro una disincantata superfetazione culturale il proprio cinismo. Ha senso perché le cose sono tutte legate, perché bisogna combattere le battaglie giuste, ciascuno nel proprio campo, e bisogna combattere anche - e soprattutto - quelle che paiono senza speranza, perché è sempre facile trovare pretesti per sviare il discorso su altro e giustificare la propria resa.


In questo momento mi trovo di fronte a un’impasse da cui non voglio farmi paralizzare. Infatti se sto zitto avvaloro con il mio silenzio questa postura cimiteriale su un aspetto per me cruciale; se reagisco senza fare un contrappunto generico e astratto ma citando come prova concreta la presenza e l’esistenza del mio lavoro e delle mie opere mi prendo del presuntuoso, di uno che se la tira, eccetera eccetera.

 

Se le cose stanno così, preferisco la rottura del bon ton e lo stracciamento moralistico delle vesti piuttosto che rendermi complice di questa postura, anche se dovrò ficcarmi tutto intero dentro il discorso, con la mia persona e con la mia opera, dicendo fuori dai denti e senza falsi pudori quello che voglio dire.


Ci sono delle cose che neppure io capisco della mia vita di scrittore: non capisco perché ho dovuto subire quindici anni di rifiuti da diverse decine di editori per poi essere accolto - al primo colpo e dopo un invio postale da sconosciuto - dal più raffinato degli editori di allora (Giulio Bollati). Ma ancora meno capisco come mai oggi - a 73 anni e dopo numerosi libri, anche di migliaia di pagine e pubblicati dai più grandi editori - continui a essere una sorta di invisibile, di lettera rubata al centro della nostra letteratura di questi decenni. La mia condizione è paradossale. Non che i miei libri non vengano recensiti, ma poi, quando si tratta di fare delle sintesi e dei compendi generali, io non ci sono o ci sono solo in modo marginale, di striscio. Io continuo a essere uno che non doveva esserci e che siccome c’è viene visto come uno che non c’è, come uno fuori posto, fuori asse, uno che non viene dall’accademia, non viene dal giornalismo, che è fuori dai giri culturali riconosciuti, che non doveva nascere e che invece ha avuto la pretesa di nascere, uno che non ha le spalle protette per cui si può liquidare anche con battutine e sarcasmi senza rischiare niente, un alieno, uno che non è stato cooptato, accettato e digerito dal grosso del mondo culturale italiano. E guai se queste cose le dico, perché allora vengo immediatamente definito un provocatore, come se le mie parole non avessero dietro di sé un’opera che le giustifica e le sostanzia.

 

Così la mia circolazione continua a essere quasi del tutto estranea a questi canali, avviene soprattutto attraverso scrittori e lettori giovani, che fanno il passaparola di persona e in rete, che mi hanno dedicato decine e decine di tesi di laurea, avviene attraverso coraggiosi amici di elezione, attraverso alcune rare figure che stanno dentro l’establishment ma che ci stanno con libertà e autonomia di giudizio, avviene attraverso persone che, all’interno dell’editoria, credono in quello che faccio e non hanno paura di continuare a propormi, avviene attraverso le numerose traduzioni all’estero, che per me hanno riaperto i giochi.


Ma adesso torniamo all’articolo di Cotroneo. Io non ce l’ho con lui personalmente - non lo conosco e magari è una persona stimabile - ce l’ho con questo insopportabile mantra suicida che caratterizza da decenni il nostro mondo culturale, e che il più delle volte è espressione di ambizioni frustrate e desiderio di livellamento.


Il discorso di Cotroneo: non ci sono più i Ceronetti, i Cioran... (ma anche quando c’erano il mantra era lo stesso, allora non c’era più qualcun altro, magari Calvino oppure Pasolini, oppure, prima ancora, Moravia...); non ci sono più i Gadda, i Manganelli, gli Sciascia eccetera eccetera. Unico esempio positivo oggi pare essere Emanuele Trevi (che ha vinto il Premio Strega e di cui l’articolista - guarda caso - è l’editor), è la forma saggio che si fonde con il romanzo.

 

E allora, caro direttore, porti pazienza ma adesso mi scatenerò un po’.

 

Ma perché devo pubblicare in Francia affinché le cose per me cambino radicalmente? Perché devo leggere in un sito in lingua inglese (The untraslated) affermazioni sulle mie opere (in particolare su “Canti del caos”) e sulla mia posizione di scrittore talmente perentorie e alte che mi imbarazzerebbe riportare qui? Mentre in Italia le mie opere ci sono ma è come se non esistessero, non entrano mai nel raggio visivo di questi eterni lamentatori, ai quali fa comodo pensare che non ci sia niente perché se no non potrebbero svolgere l’unica funzione che è a loro congeniale. E i media culturali, purtroppo, sono sempre disposti a dare spazio a questa eterna lagna piuttosto che prendersi la responsabilità di conoscere, distinguere, scommettere, separare, salvare.

 

A questo punto, perché questa lettera non abbia il carattere della sola protesta ma della vera e propria e leale sfida, non mi resta che elencare alcune delle mie opere, dove mi pare si esprima al massimo grado ciò di cui il nostro articolista lamenta l’assenza.

 

Se non ha voglia di leggersi i miei due primi libri pubblicati (“Clandestinità” e “La cipolla”) - che è stato il drammatico modo in cui sono entrato nel mondo della letteratura - Cotroneo si legga almeno, senza paraocchi e con spirito di avventura e di rischio, l’opera cui ho dedicato 35 anni della mia vita (“Giochi dell’eternità”, composto da “Gli esordi”, “Canti del caos,” “Gli increati”, che spero – prima di crepare - di vedere pubblicata insieme in un unico volume), un’opera che procede per agnizioni atomiche, dove il romanzo viene portato a esiti inconcepibili, non solo espressivi ma anche di conoscenza. Si legga almeno un piccolo e indefinibile romanzo intimo e testamentario come “La lucina”. Si legga “Canto di D’Arco”, dove entro nella gabbia del romanzo di genere ma per farla esplodere, riprendendo - per usare le parole di Cotroneo - «sentieri abbandonati troppo presto» oppure interrotti. Si legga “L’adorazione e la lotta”. E si legga soprattutto - se il suo principale campo di interesse è il «saggio che si somma al romanzo, al trattato filosofico...» libri come “Lo sbrego”, “Il grido”, “Canto degli alberi”, “Scritti di viaggio, di combattimento e di sogno”.
Li legga, ma li legga davvero, per intero, e poi mi dirà se quello di cui lamenta l’assenza uno scrittore italiano non lo stava invece facendo da tempo sotto il suo naso. E, se le cose stanno davvero così, allora non può imbastire un discorso senza tenere conto di questa presenza, perché non è vero che l’eccezione conferma la regola, l’eccezione nega la regola.
Finora ho parlato per me e di me, ma non ci sono solo io in questi anni, in Italia, e certo ci saranno altri scrittori a cui, leggendo questa ennesima lagna, sarà venuto come a me il torcibudella.

Gli americani, gli inglesi, i francesi, gli spagnoli, i portoghesi... persino i romeni, che dispongono di una lingua internazionalmente ancora meno forte della nostra, sostengono e portano sugli scudi i propri scrittori di razza. Sono solo i letterati italiani che passano il tempo a dire che nella loro lingua non c’è più niente. E quando qualcuno prova a dire il contrario - come a me è successo - o censurano letteralmente la sua posizione oppure pubblicano sì il pezzo ma come “provocazione”, come se fosse una provocazione dire che c’è quello che c’è e non invece dire che non c’è quello che c’è, come se fosse una provocazione pretendere di non farsi seppellire vivi da questi becchini e non invece pretendere di mettere sotto terra gli scrittori vivi.


Ma, per finire... Quando mai succederà che i media italiani e i loro intorpiditi tentacoli culturali si desteranno da questo quasi generale sonno di morte e (ri)cominceranno a puntare su cose forti, inattuali, irradianti invece che inseguire lo spirito del tempo e fare del populismo culturale (la stessa logica che mostrano di combattere in politica la applicano pari pari nelle pagine culturali). Quando mai succederà che ricominceranno a scommettere su cose forti e non solo su ciò che al momento vende e accattiva di più. Quando mai succederà che avranno occhi anche per ciò che di forte sta succedendo nel loro Paese e perciò ritroveranno un ruolo culturale insostituibile, un’utilità, una dignità e una nobiltà che hanno perdute, prendendosi dei rischi, andando controcorrente, magari scandalizzando i bempensanti culturali morti del nostro tempo, compresi quelli “di sinistra”, esemplari di una cultura esausta che può fare solo il controllo del territorio e dell’esistente, che non ha saputo e potuto fare argine a niente di tutto l’orrore che sta schiumando di nuovo dal passato e che rischia di sommergerci?

 

Caro direttore, mi fermo qui. Le mando d’impulso questa letterona, senza pensarci su. Perché, se lo facessi, magari alla fine non gliela manderei. Mi direi lascia perdere, non serve a niente, ma perché devo essere sempre io a gettarmi allo sbaraglio e ad espormi così? perché gli altri scrittori se ne stanno zitti e incassano? hanno le loro reti di protezione, si sono posizionati, non gli va di farsi dei nemici, di prendersi dei rischi, tirano a campare.