“Si può dire di aver visto solo quando qualcosa si è fatto riconoscere da noi”. Il modo di intendere la letteratura e la vita dello scrittore scomparso. Nel ricordo dell’amico regista

Confesso che non ho mai avuto il coraggio di andare a trovare Daniele Del Giudice nel luogo in cui, suo malgrado, si era ritirato da anni. In questo lungo tempo di assenza, ho chiesto sue notizie a Massimo Cacciari e Ernesto Franco che invece hanno continuato a fargli visita. Posso dire solo che ogni volta i loro resoconti mi lasciavano straziato, come accade con i messaggi che riferiscono di una dimensione talmente altra da non corrispondere a nessuna parola possibile, e che la mia amicizia e l’affetto profondo che ho avuto per lui nel lunghissimo periodo in cui non ci siamo visti sono rimasti immutati. Era un uomo molto riservato, Daniele, ma devoto agli amici. La sigla della sua intelligenza era iscritta nel modo divagante ma estremamente preciso con cui usava le parole, cercate con cura man mano che srotolava i suoi pensieri.

 

La sua scomparsa dal mondo era già avvenuta e ora che si è diffusa la notizia della sua morte la fine dell’avventura della sua mente coinciderà finalmente con quella del suo corpo. Con lui viene a mancare un grande scrittore, assolutamente unico nel panorama letterario italiano. Uno scrittore che sin dal suo folgorante esordio con “Lo stadio di Wimbledon” (1983), ha portato un registro inconfondibile nella tradizione del nostro romanzo. A cominciare dalla ricerca del mistero che emana dalla figura umana e eccentricamente professionale di Bobi Balzen, indagine sul mistero della vita e della scrittura, Del Giudice ha legato la sua immaginazione al pensiero, alla complessità, al lucido interrogare la materia e il mistero del mondo e lo ha fatto lasciando poche opere incise in un nitore che gli assicura la durata del classico: “Atlante Occidentale” (1985), “Nel museo di Reims” (1988), “Staccando l’ombra da terra” (1994), “Mania” (1997), “In questa luce” (2013).

La sua parola chiave era “phantasia”, e tutta la sua opera è iscritta in una certa idea del fantastico, consapevolmente elaborato attraverso una mappa di predilezioni e autori amati – Lucrezio, Ariosto, Lucano. La lettura del suo primo romanzo fu per me una autentica rivelazione, e il libro rimase a lungo sul mio comodino. Ogni tanto lo prendevo e ne rileggevo dei brani che mi avevano particolarmente colpito.

 

Credo che Daniele sia stato per molti della mia generazione un maestro. Per me sino al precipizio della malattia che lo ha inghiottito nel buio e nel silenzio era anche un amico. Ci scrivevamo lettere ma ci sentivamo molto spesso al telefono per chiacchierate interminabili. Parlavamo ovviamente di libri e progetti ma anche di vita.

 

Mi piaceva quando il suo umorismo malinconico si rompeva in una risata vera, inarrestabile. Mi piaceva quando mi telefonava da un albergo in una località esotica e lontana per dirmi che era chiuso in camera e si chiedeva che ci faccio qui. Mi piaceva il suo esserci e non esserci, lo scarto sottile tra la vita e il pensiero che emanava dal suo sguardo. Mi piaceva la sua curiosità e il suo essere senza un luogo. Romano di nascita aveva poi scelto Venezia, una città virtuale e fantastica, uno scatto dell’immaginazione più che un luogo vero. E poi amava il volo, anche quello uno spazio della disciplina e dell’invenzione, un luogo franco. Un paio di volte venne a trovarmi a Palermo, quando ancora abitavo lì. La prima volta ricordo che si presentò con una macchina da scrivere che non abbandonava mai. Facemmo delle grandi passeggiate a piedi commentandone le rovine fastose, parlammo di Sciascia e Tomasi di Lampedusa, una sorta di Bazlen che per dispetto al cugino Lucio Piccolo aveva poi abbandonato l’autocensura micidiale e scritto un capolavoro postumo. E ricordo che una volta, dopo una serata con Javier Marías che era venuto a Palermo per il premio Mondello, mentre tornavamo a casa lui disse una frase che poi, rimasto solo, ho annotato: «Si può dire di aver visto solo quando qualcosa si è fatto riconoscere da noi». Una frase che da allora mi accompagna e che qui, ora, può ricordare un modo di intendere la letteratura, il cinema, e la vita.