Idee
Gianni Celati, il passivo aggressivo della scrittura che non può morire
Metteva fuori strada la critica. Coltivava l’autonomia assoluta. Sperimentava di continuo. Rappresentando, con la sua voce unica, i fermenti e le ambiguità del Paese. L’opinione dello scrittore sardo sull’autore scomparso
«L’informazione è soggetta alla dispersione e all'entropia come il calore e come i gas: la dispersione che si produce nel trapasso d'una informazione, dissolve il nucleo della cosa su cui ti informi… ti resta in mano un fantasma, una sigla vuota che vale come un'altra».
Così scrive Gianni Celati in un testo meraviglioso dal titolo "La lettura dei Classici come terapia”. È un punto di vista che condivido e di cui vorrei assolutamente tenere conto, specialmente in questo momento in cui l’informazione sarebbe che Gianni Celati è morto.
Potrei cioè come lettore, come ammiratore, come scrittore, limitarmi al dato anagrafico dicendo che aveva compiuto 84 anni, o al dato geografico informando che si è spento a Brighton. Ma si dà il caso che, in quel di Bologna, anche da lui, Celati Gianni da Sondrio, io abbia imparato quel particolare “snobismo”, assai padano, di elaborare in proprio quanto si andava leggendo, assumendosene la responsabilità personale, oserei dire privata. E che dunque mi sento autorizzato a non cadere nel paradosso che lui aveva chiamato “della fotocopia” e affermare senza ombra di dubbio che Gianni Celati non è morto affatto. Ma vive. E vive precisamente nell’universo che aveva auspicato e narrato, quello in cui le informazioni non si disperdono in un nonnulla cognito, ma rappresentano uno dei nutrienti principali della nostra capacità di elaborare e d’inventare.
La lettura di un libro e, nella fattispecie di un classico, annulla, o dovrebbe annullare, il rischio di percepire la realtà come una semplice teoria di dispersioni e vacuità. La sostanza, la responsabilità di un punto di vista, l’onere di un senso critico, scaturiscono solo dalla capacità di leggere “con gusto” e dunque considerare la letteratura come un atto che contribuisce alla pratica quotidiana e ci orienta nei “fatti dell’esperienza”. Non troppo distante da Calvino a pensarci, quando nella sua lezione sulla Visibilità ci mette in guardia dal pericolo di guardare il nostro mondo con occhi altrui e non il mondo con i nostri occhi. Celati dunque vive innanzitutto nella sua missione di narrare il peso specifico dell’immaginazione come perno della propria esistenza.
Chi è in grado di immaginare non si sovrappone a visioni già viste, non si adatta a schemi consolidati, non si disperde “nel già detto”, ma vive. E vive nelle immagini che ha creato, nelle parole che ha scritto, nelle traduzioni che ha fatto. Vive in quei luoghi opposti ai cimiteri che sono le librerie, le biblioteche, pubbliche o domestiche, e persino i poveri scaffali delle case con pochi libri.
Ogni testo può testimoniare la sopravvivenza di chi l’ha scritto, ma solo il lettore può convalidare quella immortalità rimettendo in circolo quanto ha letto a partire dalla propria vita. Una rianimazione reciproca quella tra il lettore e l’autore. Di queste cose tanto nascoste sa parlare, e scrivere Gianni Celati. E ne sa parlare bene per via di quella precisa qualità, che hanno assai pochi scrittori, di scrivere solo di cose necessarie, con parole necessarie.
È un passivo aggressivo della scrittura, perché è fermamente labile. Come un banco di nebbia che solo apparentemente cancella. Parla ossessivamente di classici, e classici italiani, ma ci tiene a specificare che il canone a cui fa riferimento è, contemporaneamente, ortodosso: Dante, Petrarca, Boccaccio, Ariosto, Leopardi; ma anche eterodosso: Bojardo, Folengo, Bandello, fino a Tozzi e all’amato, scivolosissimo, Delfini. Segno che i canoni valgono solo quando non hanno veste di dogmi, ma segno anche del fatto che esistono autori improrogabili, seccamente indiscutibili, e altri che raffinano e aiutano a determinare uno stile. Come a dire che ogni scrittura deve poggiare su un basamento stabile, senza apparire immobile. Come a dire che da questo rapporto tra il canone e il proprio canone deriva la caratura della propria lingua. E la lingua di Gianni Celati, ancora Calvino che incombe, è semplice nella sua accezione più complessa. Una lingua che ha una voce incongrua. La voce di Celati, appunto, tanto particolare, cantilenante, vagamente inglesizzante: come si fa a dire cose talmente importanti con quella voce lì? Provate a recuperare il documentario del 1991 "Strada Provinciale delle Anime” in cui Celati recita con voce monodica “Il Canto notturno di un pastore errante dell’Asia” e ditemi se non è esattamente l’espressione di quel “pensiero in movimento” che sta tanto a cuore a questo autore tanto difficile da incasellare. Il set è il cortile di un casolare, Celati è seduto su una panca con Alberto Sironi a recitare il testo leopardiano, mentre Luigi Ghirri “decide” le immagini che accompagnano questa evocazione: i paesaggi orizzontali del Delta del Po, fotogrammi di una corriera azzurra che attraversa le linee ostinate dei campi coltivati. Come il resoconto di un viaggio dell’anima. Mai Leopardi è apparso più congruo perché in quelle immagini c’è l’intento fondamentale di dimostrare fino a che punto attraverso la letteratura si possa raccontare il senso di indeterminatezza e spaesamento nel viaggio della vita. Una versione assolutamente credibile, ma rivelatrice dell’assoluta autonomia di Gianni Celati nei confronti dell’establishment letterario e intellettuale nazionale.
In un saggio a lui dedicato una straordinaria, giovane studiosa, come Elisabetta Menetti, scrive a questo proposito: «Celati, come è noto, ha sempre dimostrato una sincera e incrollabile idiosincrasia nei confronti dei movimenti intellettuali del suo tempo e, proprio per questo, ha voluto sperimentare i generi letterari più diversi, mettendo in azione una vera e propria tecnica di depistaggio, come una preda che fugge dagli artigli della critica con sorprendenti percorsi a zig-zag. Dagli anni Settanta al Duemila ha sempre voluto spiazzare i propri lettori sperimentando l’effetto a sorpresa dei rapidi cambiamenti di direzione, come la riscoperta della letteratura comico-carnevalesca alla Rabelais contro le sirene intellettuali delle avanguardie degli anni Sessanta e Settanta oppure la fascinazione per l’école du regard e della narrazione per immagini fino al racconto documentaristico e, al contempo, coltivando persino il genere fantastico dal suo grado più alto (come in "Fata morgana”, 2005) alle differenti sfumature del vedere, dell’immaginare e del raccontare storie».
Chissà di quale canone entrerà a far parte questo meraviglioso scrittore, chi mai potrà sceglierlo come quota eterodossa e come commensale privilegiato alla tavola del proprio stile. Chissà quanti, ora che lo si crede morto, riferiranno cose che non ha detto e che non avrebbe detto mai, si ascriveranno aneddoti che lo vedono protagonista, nonostante lui detestasse il protagonismo, si ricorderanno che qualche cosa ha elaborato, scritto, narrato. Di questo sfumato scrittore si deve sapere sostanzialmente che ha teso ad una scrittura espansa, fluida, completamente estranea a strutture predeterminate, ma non istintiva, bensì frutto di una riflessione costante e non addomesticata. Basta leggerlo.