Intervista
Édouard Louis: «Mia madre in lotta per la libertà»
Una donna schiacciata dalla miseria e dalla violenza. La ribellione, la fuga a Parigi. Lo scrittore francese prosegue nel racconto di sé. E di come si cambia
Cosa significa cambiare? Le trasformazioni sono sempre uno strappo, quelle di una donna sono avvolte nel mistero. «Eri difficile a prendere», così Umberto Saba canta la madre nella poesia “Donna”. E la lotta di una madre per una vita migliore è al centro del nuovo romanzo autobiografico di Édouard Louis “Lotte e metamorfosi di una donna”, pubblicato in Italia da La nave di Teseo e tradotto da Annalisa Romani. Nel 2014 lo scrittore francese, che oggi ha 28 anni, ha dato alle stampe il suo primo libro “Farla finita con Eddy Bellegueule”, presto diventato un caso letterario, a cui sono seguiti quattro romanzi. Al centro dei suoi racconti la violenza della miseria vissuta da bambino e la battaglia per abbandonare a tutti i costi la povertà. Louis ci dà appuntamento in un bar tabacchi anonimo del 14° arrondissement, quartiere residenziale parigino dove convivono borghesi e classi popolari.
Louis, per incontrarci lei ha scelto questo bar fuori dal centro, ma senza l’establishment culturale lei non potrebbe scrivere…
«Certo, se vogliamo cambiare le cose bisogna appropriarsi delle istanze centrali, dei grandi editori, dei grandi giornali. Sono questi gli spazi che hanno potere, dove si può essere visti e ascoltati, e allo stesso tempo non voglio farmi totalmente assorbire da questo sistema. Il mio obiettivo è essere uno straniero dall’interno. La marginalizzazione rassicura i dominanti, a loro piace quando i dominati sono marginalizzati perché così non creano problemi. Quando non hai avuto nulla, come me, mia madre e mio padre, diventa sovversivo prendersi gli spazi centrali».
I suoi romanzi sono estremamente militanti. Perché?
«Mi hanno detto che un libro in generale non deve essere troppo politico, mentre io l’ho vissuto sulla mia pelle: so che per le classi popolari una riforma, un aiuto sociale in più o in meno, il rimborso di un farmaco, per i poveri significa la possibilità o meno di curarsi, di mangiare o meno, dunque la politica fa parte della vita intima. Per i dominanti questo non avviene, perché possono andare oltre la politica, quando avete i soldi potete acquistare tutti i medicinali che volete, non avete bisogno di aiuti sociali per vivere. Un libro che non deve essere politico è un libro che non parla davvero delle classi popolari, che non parla di mia madre e di mio padre. Ho provato a rompere queste regole della letteratura».
Il titolo del suo ultimo libro evoca le metamorfosi di una donna, non di una madre. Cosa significa per lei essere una donna?
«Essere una donna è una forma di identità sociale, come essere gay o essere neri, che impone una certa mole di giudizi, perimetri che limitano alcune esperienze della vostra vita che si possono provare a rompere o meno. Essere donna può voler dire tantissime cose, ci sono tantissimi modi di essere donna come di essere uomo. Per mia madre essere una donna della classe popolare del Nord della Francia ha significato essere attraversata da un’estrema violenza, perché in quanto donna mio padre voleva che restasse a casa, crescesse i figli e facesse da mangiare per sette persone, mentre lui andava al bar con i suoi amici. Lei doveva aspettarlo a casa per la cena perché se rientrava e noi avevamo già mangiato esplodeva, era il sovrano del tempo. La dominazione è sempre una dominazione del tempo degli altri. Come donna delle classi popolari, mia madre era ancora più donna di molte altre, perché la povertà le impediva di fuggire dalla dominazione di mio padre. Non aveva soldi, né diploma, né patente, perché mio padre non voleva che l’avesse. Se non avete soldi, diplomi, conoscenze e possibilità di viaggiare è ancora più difficile fuggire da un uomo violento. La storia di mia madre è una delle storie di donne meno raccontate oggi, nonostante sia tra le donne che soffrono di più della dominazione maschile. Le loro voci si sentono pochissimo nel discorso delle femministe perché non hanno accesso alla parola, mentre si parla spesso di donne borghesi del mondo del cinema, dei media, della cultura».
Al centro del romanzo c’è la liberazione di sua madre che, grazie all’aiuto di un uomo, riesce a fuggire dalla povertà, da Hallencourt, villaggio del Nord, e va a vivere a Parigi. La liberazione è possibile solo grazie agli altri?
«In genere, questo tipo di liberazione viene attaccato dalla sinistra. Non bisogna liberare gli altri, gli altri devono liberarsi, non bisogna parlare al posto degli altri, c’è qualcosa di negativo perché viene vissuto come un’appropriazione. A me sembra stupido e anche un po’ borghese. Esistono situazioni di dominazione molto forti, in cui le persone riescono a liberarsi soltanto se interviene un elemento esterno ad aiutarle. La liberazione è un percorso in due movimenti. Per riuscire a lasciare il mio villaggio e andare a studiare a Parigi ho incontrato persone che mi hanno aiutato, non avevo alcun mezzo per trovare una via d’uscita, non sapevo cosa avrei potuto fare, ignoravo il sistema scolastico, conoscevo male il modo di funzionare del mondo, è stato tutto possibile tramite incontri che mi hanno liberato, permettendomi di fuggire. Ma anche la lettura mi ha aiutato. Ci sono catene di liberazione. È liberando se stessi che si possono liberare altri, perché si rende possibile nella testa altrui l’idea di libertà. Quando ho cominciato a venire a Parigi e ho cambiato nome e cognome, mia madre ha voluto imitarmi, ha cambiato cognome anche lei».
Alla fine del libro, quando racconta la fuga di sua madre a Parigi e la sua nuova vita, lei si domanda: «Cosa significa cambiare?». Il cambiamento rimane circoscritto alla violenza di classe?
«C’è un vero cambiamento quando mia madre lascia mio padre che pesava su di lei, le parlava male e lei stessa era aggressiva, riproduceva la violenza che subiva. Viveva in uno stress continuo e per questo era meno dolce, meno generosa con i suoi figli. Per questo parlo di catene di liberazione. Se abbiamo una giornata difficile, la sera rientriamo e siamo aggressivi con le persone che amiamo perché siamo tesi, qualcosa non va. La legge psicologica che viviamo è anche una legge sociologica. Per qualcuno come mia madre lo stress era quotidiano…potrò pagare l’affitto? Potrò comprare delle scarpe ai miei figli? Potrò dar loro da mangiare? Questo stress la rendeva molto dura con me. Quando si è liberata di mio padre è diventata molto più gentile. C’è un cambiamento nel modo in cui lei ha rotto un meccanismo della dominazione maschile, da cui si è liberata da sola. Non sono io, è lei che un giorno ha messo le cose di mio padre in un sacco della spazzatura e gli ha chiuso la porta. La questione della liberazione in un mondo di povertà non è facile».
In alcuni momenti della sua infanzia sua madre appare felice. Eppure proprio in questi momenti lei dice di detestarla, perché?
«Da bambino vedevo mia madre sempre maltrattata da mio padre, avevo interiorizzato nel mio corpo che quello era il suo posto nel mondo, infelice a cucinare e pulire la casa. Avevo assorbito il modo di trattarla di mio padre. In fondo i bambini sono fascisti, vogliono soprattutto che la realtà non cambi, si vede per esempio quando un bambino prende uno zaino di Barbie a scuola, si fa massacrare dai suoi compagni che lo prendono in giro. I bambini spesso assorbono i modi di vedere la realtà degli altri. Come bambino ho fatto parte della dominazione che mia madre ha subito, come figlio ho fatto parte di quella maledizione che è stata la sua vita, per lei essere madre è stato quasi sempre fonte di violenza. Quando ho cominciato a scrivere il libro l’ho fatto in terza persona dicendo “ecco la storia di questa donna”, poi mi sono detto che non potevo scriverla così perché come figlio ho fatto parte della dominazione che ha vissuto, sarebbe stato disonesto raccontarla così. Quando ho lasciato la famiglia e sono andato al liceo ho visto dall’esterno quello che viveva e mi è sembrato insopportabile».
Per lasciare il villaggio, per studiare e vivere a Parigi lei ha dovuto dare il proprio corpo. Dal punto di vista sessuale, intendo. Concedere il proprio corpo è una condizione indispensabile per realizzare il salto di classe?
«Sì, mi sarebbe piaciuto che non lo fosse, ma è una condizione. Se avessi tentato l’audizione dell’École Normale con un accento provinciale del nord non sarei mai stato accettato. Le gerarchie esistono. Quando avete un certo corpo, siete esclusi da un certo mondo».
Lei racconta della prostituzione per pagarsi il dentista, o di aver cercato e trovato un luogo per dormire a Parigi grazie a scambi sessuali…
«Sì è vero, ma questo è stato meno violento, meno importante, trovo che la sessualità sia una cosa leggera. È stato anche un modo per scoprire la mia nuova sessualità repressa durante l’infanzia. Prostituirmi è stato meno duro che lavorare da McDonald’s o da Amazon. Molte più persone di quanto si pensi lo fanno per vivere. Avevo bisogno di guadagnare soldi, era un modo di fare un lavoro non troppo fisico. Il momento davvero doloroso per il mio corpo è stato il cambiamento dell’accento, del modo di muovermi, di parlare, ho perso 20 chili, ho cambiato i denti, i capelli, il modo di vestirmi. Sentivo una tale violenza nei miei confronti, la violenza sociale mi ha spinto a conformarmi al corpo della borghesia e nello stesso tempo è grazie a questa violenza che sono riuscito a trovare lo spazio per esprimermi. Se avessi mantenuto un corpo simile a quello di mia madre oggi non saremmo qui a discutere. Di recente ho portato mia madre da un medico perché aveva una gamba dolente. Due giorni dopo ho rivisto il medico e il modo in cui mi ha trattato era completamente diverso. Mia madre faceva fatica ad esprimersi, ha un accento molto marcato ed è stata trattata meno bene. Molti studi sociologici mostrano che la borghesia viene trattata dai medici meglio delle classi popolari. Alla base c’è l’idea che alcuni corpi siano più preziosi di altri».