Gli inizi durissimi, la fatica di essere migrante. E poi Grotowski, l’Odin Teatret, la rivoluzione compiuta sul linguaggio scenico. Parla il maestro di teatro in scena a Roma con la sua ultima regia: “Tebe al tempo della febbre gialla”

Ha un che di leggendario: il sorriso aperto, lo sguardo tagliente, un’eterna energia che continua a trasmettere in tutto il mondo. Eugenio Barba, ottantacinque anni appena compiuti, è un giovanotto instancabile. Maestro di teatro, fece una pacifica e bellissima rivoluzione a metà anni Settanta, creando il “Terzo Teatro”, che si distingueva dalla scena mainstream e da quella di ricerca: «Era una generazione, la nostra, spesso confusa, che chiamai del “Terzo Teatro”. Era una sorta di “terzo mondo”, senza soldi, e con le ambizioni di affrontare il rigore, la disciplina, lo studio». Lui sa bene le difficoltà degli inizi. È stato emigrante: partito dal Salento, ha fatto molti mestieri, prima di scegliere il teatro.

«Avevamo ancora il ricordo della guerra mondiale, della fame, del grigiore dell’Italia: sono riferimenti naturalmente persi oggi. Invece, per ognuno di noi, come anche per Jerzy Grotowski, il teatro era un “rifugio”, un modo indiretto di perseguire alcune necessità. Per lui significava andare, con la sua ricerca spirituale, oltre il regime polacco; per il Living Theatre era tentare un modo di vivere totalmente anarchico. Per me significava superare il mio essere migrante. Ho fatto tanti lavori, e cercavo una “maschera” che mi proteggesse dagli insulti razzisti, dal sentirmi dire “sporco italiano”, o addirittura “fascista”, dal momento che la memoria del fascismo era ancora presente. La maschera, allora, era quella dell’artista: in teatro potevo mantenere una certa libertà. Era una necessità personale».

Ha fondato il suo Odin Teatret a metà degli anni Sessanta: il gruppo formato da giovani e giovanissimi rifiutati dalle accademie trovò casa in una vecchia stalla di Holstebro, in Danimarca, che tutti assieme ristrutturarono con entusiasmo. E Barba, da quel luogo diventato mitico, ha rinnovato radicalmente il linguaggio della scena, focalizzando sempre più l’attenzione sull’arte dell’attore, tra Oriente e Occidente, e sulle dinamiche del gruppo, unendo sempre teoria e pratica.

Era il 1980 quando usò per la prima volta l’espressione “antropologia teatrale”: definiva così lo «studio del comportamento dell’essere umano in una situazione di rappresentazione organizzata». Una disciplina – che influenzerà moltissimo, tanto da ravvivarli, gli studi di teatro in Italia – che abbraccia i principi tecnici dell’arte dell’attore/danzatore in una «dimensione transculturale. L’obiettivo di questa scelta metodologica derivava da un approccio empirico e mirava a una comprensione dei principi fondamentali che generano la “presenza scenica” dell’attore/danzatore e i suoi effetti sulla percezione di chi osserva», spiega.

Con il suo gruppo, Barba ha scavato a fondo questi temi, chiamando in causa passato e presente del teatro internazionale: «Esiste nel teatro una tradizione dell’impossibile. La conferma ne è la vita di Eleonora Duse, Sarah Bernhardt, Isadora Duncan, Konstantin Stanislavskij, Ellen Terry, Gordon Craig, Vsevolod Meyerhold, Helena Modrzejewska, Adolphe Appia, María Guerrero, Antonin Artaud e Bertolt Brecht. Tutti questi artisti seppero immaginare e a volte realizzare un teatro considerato impossibile dai loro contemporanei. Oggi ci appaiono come pionieri che trascesero l’orizzonte del teatro, dando un’altra dimensione alla nostra professione sorta come intrattenimento».

E questa tradizione si riverberava negli storici allestimenti, solo per citarne alcuni: al primo, “Ornitofilene” del 1965, a Ferai, del 1969, all’incredibile “Come and the day will be ours”, del 1976; a “Le ceneri di Brecht”, del 1982, fino ad arrivare ai più recenti, come “Talabot”, del 1988, o “Kaosmos”, dell’83, e ancora “Andersen’s Dream”, del 2004 o il nuovissimo “Tebe al tempo della febbre gialla”, presentato al Teatro Vascello di Roma, nell’ambito di un articolato progetto e annunciato come l’ultima regia di Barba. «Eccomi ancora una volta – ha spiegato – a spogliare gli attori di quello che sanno, renderli indifesi, e così imporre a me stesso di denudarmi di ogni conoscenza… Dopo aver realizzato 79 spettacoli, sembra superfluo farne ancora uno. Invece mi muovo verso Edipo, il pellegrino cieco che mi tende la mano. Insieme ai miei attori avanzo nel buio. Gli attori riconoscono i personaggi solo dopo che li hanno creati. Il regista sfiora l’essenziale solo dopo che l’ha finito. Bisogna smettere prima di aver detto tutto».

E in scena ci sono loro, i compagni di sempre: Kai Bredholt, Roberta Carreri, Iben Nagel Rasmussen, Julia Varley, Donald Kitt. A vederli, viene da pensare a quante avventure abbiano passato: gli arresti sotto la dittatura cilena; i continui viaggi in tutto il mondo; la pratica umile e poetica del “baratto” con le comunità che incontravano; lo struggente viaggio nel Salento del 1974 – documentato da un bellissimo film di Ludovica Ripa di Meana – quando quell’Italia contadina era scossa non solo dalla strategia della tensione ma dalla “civilizzazione” borghese e capitalista denunciata da Pasolini. Accanto alla pratica scenica, resta sempre viva la vocazione pedagogica, fatta di tanti workshop, in cui si riflette sulla filosofia del teatro, e si continuano a investigare metodi di lavoro e di training.

Oggi, dopo aver salutato compagni di ventura chiamati ad altra vita nel corso del tempo, Eugenio Barba e l’Odin Teatret hanno dovuto lasciare la storica sede: l’hanno fatto con entusiasmo e l’orgoglio di bambini pronti a un nuovo viaggio. Con Julia Varley, storica componente dell’Odin, Barba ha dato vita a una Fondazione che porta il loro nome, e che si fa carico di mantenere viva questa memoria, e questa sapienza, lunga oltre mezzo secolo. Ed è un “ritorno in patria”, in quella Puglia che ha dato nuova casa alla Fondazione, dopo la storica sede di Holstebro.

A partire dal 13 ottobre 2022, la Biblioteca Bernardini di Lecce, accoglierà nei suoi spazi il “Living Archive Floating Islands” (Archivio Vivente Isole Galleggianti) che inquadra il lungo percorso dell’Odin Teatret come teatro-laboratorio, e la memoria delle diverse realtà delle Isole galleggianti, nome che Barba aveva poi dato al Terzo Teatro, alla cultura dei gruppi che hanno segnato la storia del teatro della seconda metà del Novecento fino ai giorni nostri.

«Sarà un archivio-mostra-installazione interattiva che non solo darà casa e possibilità di studio a centinaia di materiali e reperti – libri, documenti, video, filmati, scenografie, oggetti – ma sarà un’esperienza da attraversare e conoscere in modo reale. La scelta è di preservare e studiare le testimonianze del passato e un universo artistico per reinventarlo», spiega.

È una bella novità, uno spazio interessante non solo per gli studiosi di teatro, ma per tutte quelle nuove generazioni che hanno conosciuto l’Odin solo attraverso i libri. «La durata è la forma di resistenza di un teatro», afferma Barba citando un altro maestro, Jacques Copeau: «Per questo sono convinto dell’importanza di uno spazio di continuità culturale per le nuove generazioni. Questa proiezione della memoria non è concepita per imbalsamare un passato irripetibile, ma per “rimetterlo in scena” attraverso nuove forme e grazie a tecnologie che spingono i limiti della memoria dai confini del passato, al presente e al futuro».

La Fondazione Barba Varley (su Internet all’indirizzo www.fondazionebarbavarley.org) si rivolge alla cultura dei “senza nome” del teatro. Il suo obiettivo è «appoggiare focolai di azione di soggetti svantaggiati per genere, etnia, geografia, età, modo di pensare e agire dentro e fuori dal teatro. Il teatro è politica con altri mezzi: quelli della Bellezza, della Vulnerabilità, dell’Ostinazione e del Rifiuto», spiegano i fondatori.

E certo una ariosa, affascinante, commovente pagina politica è stato, ed è ancora, il teatro dell’Odin. Perché quel manipolo di uomini e donne, capitanato da un condottiero caparbio e generoso è l’ostinato tentativo di difendere la poesia in questa Italia eternamente fascista. Ci proviamo, anche noi che il teatro lo viviamo di riflesso, a far di tutto – ciascuno per quel che può – pur di tenere viva almeno l’idea di teatro come esperienza da fare assieme, di tutti e con tutti. Proviamo a non farci risucchiare dal vuoto, dalla chiusura, dalla paura, dai nuovi populismi e dagli ottusi regimi.

Il gioco teatrale dell’Odin, così evanescente, così fragile nel suo essere immediata percezione e condivisione, è l’unico modo per chi sta in scena di lasciare traccia di sé.

Le opere: restano le opere, dicevano gli esistenzialisti. Restano gli spettacoli, i personaggi, gli incontri, i libri. Le persone svaniscono nel tempo, è naturale, ma la loro azione resta. Sul finale di Tebe, gli attori e le attrici lasciano la scena danzando e cantando.

Eugenio Barba, allora, ci saluta con una domanda quanto mai aperta: «Che saremmo noi senza la consapevolezza di quello che non esiste più?».