Ho visto cose
Tutto chiede salvezza, che bello il viaggio sulla nave dei pazzi
La serie Netflix diretta da Francesco Bruni è un racconto straordinario sulla forza della fragilità
C’è un momento preciso che ti separa dal vuoto. Quell’attimo in cui non sai se buttarti, travolto da una ragionevole paura, ma ti senti sbagliato, perché gli altri lo hanno fatto e sono laggiù, in quella piscina che sembra piccina come una tazza di brodo. Quello stesso istante in cui, al contrario, ti assale un dubbio bruciante che all’improvviso regala un’altra faccia alle tue insicurezze, perché forse il vero coraggio sta proprio nel decidere di non voler saltare e l’errore non sei tu che sei rimasto lì, paralizzato sul cemento a dieci metri d’altezza e forse è giusto rimanere immobile su quella piattaforma alta come il cielo, perché i cretini, gli incoscienti, il vero errore sono loro, che hanno affrontato quel tuffo senza porsi alcuna domanda. Forse.
“Tutto chiede salvezza”, la serie (Netflix) che lascia sulla pelle una sensazione duratura di disagio e bellezza, gioca per sette episodi su questo limite invisibile, dove ogni gesto, ogni lacrima, ogni sorriso può essere anche il suo contrario, perché trovare la forza di guardarsi è il vero motore e non la risposta che a volte puoi trovare.
«Non lasciare che nessuno ti racconti il mondo», dice il maestro Mario col sorriso straziante di Andrea Pennacchi, e non permettere al mondo di raccontarti, viene da dire. Nei giorni tristi in cui la tv si appropria del disagio psichico sbattendolo nello schiacciasassi multicolore del “Grande Fratello”, questo lavoro seriale ti prende alla gola e ti porta sulla nave dei pazzi capitanata da Daniele (Federico Cesari, ancora una gemma sbocciata da “Skam”), in un viaggio controcorrente, al ritmo sonoro delle ciabatte che sbattono sul pavimento dell’ospedale psichiatrico, nella danza delle memorie perdute da ritrovare come versi di una poesia.
Così Francesco Bruni, regista capace ancora una volta di muovere gli attori come pochi altri, prende il gran romanzo di Mencarelli e lo impasta adattandolo alle facce straordinarie dei protagonisti facendoli andare e venire come un’onda lenta e lavorando con rispetto all’elegia della sottrazione in cui basta uno sguardo perduto, un dito che sfiora un ricciolo fuori posto, il nodo sciolto di una vestaglia.
E dal cuore del racconto sullo smarrimento, il Tso, le urla e il furore, si cammina in bilico sul filo del vuoto che non pretende di essere riempito, in un gioco di specchi sui singoli che si fanno comunità stretti in un unico abbraccio. E dove i fratelli sono offerti dalla vita, l’amore si trova, la fragilità si accudisce. Per cercare salvezza.