Da Ponthus a Prunetti, sempre più spesso la narrativa mette al centro il lavoro. “In una linea di produzione tutto si svolge rapidamente. I gesti sono veloci, meccanici, uguali. Non c’è tempo per le subordinate carine”

Otto, nove ore di fabbrica. Brevi pause, caffè e sigarette. Cercare un passaggio da e per. Le telefonate dell’agenzia interinale, sempre mentre si sta riposando dopo il turno di notte. Sgusciare gamberetti. Grattare il grasso dal mattatoio. Gesti, mani, schiene, muscoli, sangue, e parole, rade, ché nel fracasso delle macchine andrebbero a vuoto. Tutto quanto, anche passare un’intera nottata a scolare tofu o succhiare una caramella Arlequin perché il tempo passi più in fretta - «come i personaggi di Beckett succhiano sassi» - è materia. Materia della letteratura, materia della poesia.

Scrittore-operaio, operaio-scrittore, Joseph Ponthus, morto a 42 anni per un tumore nel 2021, ci ha lasciato “Alla linea”. Fogli di fabbrica, capolavoro e pietra miliare della letteratura working class, genere, dopo gli anni Settanta, non particolarmente di moda in Italia, un po’ meglio in Francia, Svezia e Gran Bretagna - qualche nome contemporaneo: il britannico D. Hunter, l’americana Stephanie Land e l’italiano Alberto Prunetti, che Ponthus lo ha conosciuto e raccontato, e che ha da poco pubblicato un importante lavoro seminale sulla letteratura working class, “Non è un pranzo di gala. Indagine sulla letteratura working class” (minimum fax).

“Alla linea” è il resoconto, in una prosa poetica di straordinaria limpidezza, dei due anni trascorsi dall’autore «alla linea» - espressione che ha sostituito quella, forse più esatta, di «catena» - nella cittadina portuale bretone di Lorient. In fabbrica, che pure diventa il suo oggetto letterario, Joseph Ponthus (un mix tra San Giuseppe, patrono dei lavoratori, e Pontus de Tyard, poeta del ‘500 tra i fondatori del gruppo della Pléiade) non ci arriva per questioni ideologiche o sociologiche: «Non ci andavo per fare un reportage / Men che meno per preparare la rivoluzione / No / La fabbrica è per i soldi / Un lavoro per campare». Baptiste Cornet, il suo nome di battesimo, nasce a Reims, Francia nord orientale, in una famiglia popolare. Studia grazie alle borse perché è uno bravo, merita. Uscito dai «banchi delle élite», al posto della «carriera» sceglie di fare l’educatore di ragazzi in difficoltà al comune di Nanterre. Nel 2015 incontra Krystel, educatrice pure lei ma in un paesino della Bretagna. Un grande amore, in cambio, chiede sempre grandi scelte, così Ponthus si trasferisce a Lorient dove gli unici lavori te li offre l’agenzia interinale e, in un posto con cinque porti, il settore è per forza l’agroalimentare, prima pesce poi carne. Eppure, lavorare si deve, per pagare l’affitto, comprare i croccantini al cane. Per due anni, sfrutterà ogni momento libero per scrivere questo libro, che è diario, cronaca e poesia. Quando, nel 2019, esce nelle librerie, ne porta una copia al capo del mattatoio: il contratto, come immaginabile, si interrompe. Quello che Ponthus non avrebbe mai potuto immaginare è che quei suoi «fogli di fabbrica» sarebbero diventati un caso letterario, sparati su nelle classifiche non tanto dai critici, che ne apprezzano la qualità letteraria, ma soprattutto dai lettori.

“Alla linea” è un oggetto ibrido, come solo può esserlo qualcosa che nasce negli interstizi del poco tempo liberato dalla fatica. Dentro, anche la lingua è scompaginata e multiforme: c’è quella delle canzoni di Carla Bruni e Trenet («In fabbrica canti / Cazzo se canti / Canticchi mentalmente / Urli a squarciagola coperto dal rumore delle macchine»), c’è quella della letteratura con gli amati Apollinaire e Dumas, ma c’è, anche, quella delle mense. La forma sono i versi liberi, ossa di un ritmo che è proprio la fabbrica a dettare: «In una linea di produzione, tutto si svolge molto rapidamente. Non c’è tempo per le subordinate carine. I gesti sono meccanici e i pensieri vanno in linea», dice a Libération. E, per rimanere fedele a una linea che mai va interrotta, via anche la punteggiatura. Alla linea è un lungo monologo il cui motore primo è «il bisogno di scrivere [che] si ficca tenace come una lisca in gola / Non la desolazione della fabbrica / Ma la sua paradossale bellezza».

Tra i suoi modelli c’è Thierry Metz, il poeta-operaio autore di “Diario di un manovale” di cui Ponthus dice: «Ricevuto oggi / Uno schiaffo», e di cui ammira: «Solo l’essenziale / Questa lingua / Ciò verso cui vorrei tendere / Queste parole / Questo silenzio del lavoro». Nato a Parigi nel 1956, campione di sollevamento pesi e autodidatta nelle lettere, Metz si era trasferito con la moglie in un paesino sulla Garonne, Agen. Qui aveva fatto l’operaio e, quando riusciva, scriveva, e tutta quella fisicità, che sembrava così in contrasto con la vocazione della scrittura, aveva finito per connotare prepotentemente i suoi scritti: «Scrivere non è che toccare» e, rivendicava, «Scrivo nell’ortica, non nella rosa». Dopo la tragica morte di un figlio, aveva attraversato la depressione, l’alcol e i manicomi e aveva finito per uccidersi nel 1997, a soli 41 anni, uno in meno di Ponthus a tutti gli effetti erede di quella scrittura manuale ed evocativa, esorcismo ma anche riscatto.

In “Alla linea”, opera visceralmente politica che, raccontando la realtà in maniera consapevole, supera di fatto l’ideologia e la «politica dei partiti», Ponthus punta il dito: «Ehi Manu / Non verresti mica con noi domani mattina a spingere un po’ di carcasse che ci facciamo quattro risate insieme». Manu è Emmanuel Macron: nel 2019, i Gilets Jaunes si riunivano ancora ogni sabato per rivendicare, anche violentemente, migliori condizioni di vita. Lui stesso, Ponthus, vorrebbe esser vicino ai colleghi che scioperano, ma non può: gli interinali come lui, «esercito industriale di riserva», si collocano ancora un gradino sotto quegli operai che un contratto da dipendenti almeno ce l’hanno. Impossibile, quindi, rifiutare delle chiamate così come scioperare. Ma aggiunge: «Sarei stato felice di essere tra questi “illetterati che / Macron disprezza / Tra quelli che non lavorano per pagarsi un vestito ma un pile da Decathlon visto il freddo in cui lavoriamo».

Non mancano tuttavia gli squarci di tenerezza, riservati ai colleghi, alla madre, alla moglie, al cagnolino Pok Pok. A un certo punto, paragona la fabbrica alla psicoanalisi (sperimentata in passato): da quando ha iniziato quella vita, infatti, gli attacchi di panico sono scomparsi. «La fabbrica mi ha calmato come un lettino», scrive, ma poi mette meglio a fuoco la cosa: a salvarlo, non sono stati né la fabbrica né l’analisi ma qualcos’altro. Innanzi tutto, la scrittura. «Sono fortunato ad avere le parole», dice in un’intervista. «Se non fossi stato in grado di scrivere ogni giorno di quello che stavo passando, mi sarei schiantato sulle rive della fabbrica». Ma non solo. In questa sua parabola, così breve eppure così luminosa, Ponthus riesce pure ad afferrare una verità: «Mi rendo conto che no / Non devo nulla alla fabbrica e nemmeno all’analisi / Lo devo all’amore / Lo devo alla mia forza / Lo devo alla vita».