Un uomo qualunque che diventa paramilitare. Un Papa controverso. E il primo film da regista. L’attore si racconta: “Il cinema non deve dare solo messaggi rassicuranti, ma anche moniti”

Un barista razzista e guerrafondaio e uno dei Papi più controversi della Storia. Sono i nuovi personaggi che Giuseppe Battiston porta sullo schermo, rispettivamente nei film “War - La guerra desiderata” di Gianni Zanasi, ora al cinema, e “Il principe di Roma” di Edoardo Falcone. L’attore friulano, 54 anni, si prepara poi all’uscita, nel 2023, del suo primo film da regista “Io vivo altrove”, che arriva a coronare una carriera trentennale tra teatro, televisione e cinema anche internazionale. Dopo essere stato diretto da Danny Boyle nella serie tv “Trust”, ha infatti lavorato con Robert Zemeckis per il suo “Pinocchio”, interpretando un memorabile Mangiafuoco.

Partiamo da “War - La guerra desiderata” di Gianni Zanasi, presentato in anteprima alla Festa del Cinema di Roma. Ideato anni fa, mette in scena una guerra che si scatena nel cuore dell’Europa e risulta fortemente attuale nelle atmosfere. La sua prima reazione dopo aver letto la sceneggiatura?
«Ho detto a Zanasi: “Ma sei sicuro? È un po’ forte”. Nel film la guerra è usata come provocazione e pretesto per vedere fin dove possono spingersi, nel bene e nel male, gli animi delle persone».

La finzione nel frattempo è diventata realtà: la guerra è scoppiata davvero, seppure in altri modi e contesti.
«Ho risentito Zanasi: “Ma tu sei un veggente, vedi il futuro”. Mi ha risposto: “No, è il futuro che sta andando indietro”. Concordo, prima aspettavamo il futuro, adesso è il futuro che aspetta noi. Fino a qualche anno fa non potevamo neanche immaginare di piombare in questo disastro: si cancellano di colpo secoli di storia, di pensiero, di progresso».

Nel film interpreta un barista che coltiva odio e alla prima occasione non esita a imbracciare un mitra e improvvisarsi paramilitare. Come lo ha costruito?
«Partendo dalla sua disperazione. Mauro è un uomo che si perde nella devastazione della sua solitudine e aridità dell’anima. In un quadro spirituale così logorato, l’idea di poter appartenere a qualcosa, come un gruppo paramilitare, lo fa sentire improvvisamente vivo e importante. In questo l’ho trovato realistico: certe marginalità finiscono per creare dei mostri».

Mostro lo è davvero, specie quando minaccia di dare fuoco a un uomo di colore che lega con delle corde a un barile…
«Non compie certo delle buone azioni, ma è utile per mettere in scena la violenza che esplode nel quotidiano. Sul set continuavo a chiedere preoccupato all’attore legato: “Va tutto bene? Sicuro?”. Non è stato facile girarla, parte con un tono ironico di bivacco collettivo e esplode come una miccia in qualcosa di pericoloso per cui non c’è più niente da ridere. La trovo un’immagine fortissima, emblematica di quello che stiamo vivendo. Il cinema non deve mandare solo messaggi rassicuranti, ma anche moniti».

Mauro è un monito?
«Racconta la banalità del male, quello che può sempre accadere nell’animo della persona che credi di conoscere. Purtroppo ormai sappiamo in che abisso può gettare un conflitto, conosciamo l’odio che monta senza motivo. Ma continuo a sperare che l’individuo non nasca cattivo, quindi se da una parte c’è l’esplosione cieca di violenza, dall’altra parte, come racconta il film, c’è anche un’esplosione cieca di amore. Ogni situazione disperante cava fuori il meglio e il peggio delle persone».

Com’è stato per un pacifista convinto come lei imbracciare un mitra?
«Ho praticato l’esercizio costante di astenermi dal giudicare il mio personaggio. Per il resto, a parte il dolore di portarsi in giro un’arma pesante che tra rinculi vari mi ha causato non pochi dolori, avevo sul set i maestri d’armi che mi spiegavano tutto. Mauro è un barista, non sa sparare, non è un soldato esperto o un guerriero. Tiene il mitra come immagina che si tenga, è tutto sballato in quel suo gruppo paramilitare di improvvisati della domenica pomeriggio».

Improvvisati ma violenti. Come gli italiani di oggi?
«È senz’altro più facile odiare qualcuno piuttosto che darsi da fare e rimboccarsi le maniche facendo autocritica. Per questo le società del male impostano le loro teorie sul diverso come potenziale pericolo: se cominci a vedere il diverso da te - a livello di genere, pelle, classe, cultura, sesso - come un nemico allora non si dialoga più, cambi lato del marciapiede, inizi a guardarlo male. Parte un pensiero malato che si infila sotto la pelle di una società che è già in crisi e che la pandemia ha peggiorato, con la rabbia dei cittadini chiusi in casa che chiedevano a gran voce la riapertura dei bar – curioso che in pochi chiedessero quella dei teatri e dei cinema, ancora vuoti perché la gente può starsene a casa a devastarsi di serie».

Il cinema può cambiare le cose?
«Può cambiare i pensieri della gente, come può farlo una sinfonia, un quadro, un romanzo, tutto ciò che nutre l’animo».

Da un barista guerrafondaio al papa Borgia il passo è breve?
«So bene che possono offrirti la stessa tipologia di personaggio fino alla pensione, ma per me è ancora presto. Così ho accettato di calarmi in panni diversissimi da me e da ciò che ho fatto finora. Come la mia versione di Alessandro VI, che nel film è presentato come il papa Borgia peccatore. Nel film si presenta pentito, dice a chi guarda: “Se continui a comportarti così farai la mia fine, non sono stato esemplare”. È stato molto divertente».

Nel 2023 uscirà al cinema il suo primo film da regista: che cosa dobbiamo aspettarci?
«“Io vivo altrove” è una sorta di fiaba girata in Friuli, una chance per raccontare il posto da cui vengo. È ispirato al romanzo incompiuto di Gustave Flaubert “Bouvard et Pécuchet”, in cui i due protagonisti – Rolando Ravello e io - sono due sconosciuti che diventano amici e decidono di vivere in campagna inseguendo un sogno di autosufficienza. L’ho girato in sei settimane, con tutte le difficoltà e l’inesperienza di un regista esordiente. Ho diretto un gruppo di attori splendidi e una troupe davvero speciale».