Da diva dell’alienazione a prima vera maschera femminile della trionfante commedia all’italiana, è stata un’attrice unica, europea, libera

Monica Vitti, grande e coraggiosa più del suo stesso cinema

Non si era mai vista un’italiana così. In un paese di dive-mamme, dive-maggiorate, dive-amanti, dive-lolite, Monica Vitti era qualcosa di più complesso, inatteso e per molti versi addirittura inquietante: una donna. Punto e a capo. Una donna moderna, con la sua libertà, i suoi umori e magari le sue nevrosi. Una donna improvvisamente europea, che anticipava (e avrebbe interpretato a lungo) i cambiamenti del nostro paese esplorando i registri più diversi, prima musa del cinema d’autore, poi regina della commedia. Un’attrice diversa da tutte le altre, che veniva dal teatro e al cinema non pensava nemmeno se un giorno Michelangelo Antonioni non l’avesse notata mentre doppiava “Il grido” e le avesse offerto il ruolo della protagonista nel suo film successivo, l’estremo, provocatorio, fischiato, geniale “L’avventura”. Non senza aver prima lavorato insieme anche a teatro.

 

Nasceva così una delle coppie-chiave del cinema moderno, quel cinema che nei primi anni 60 rivoluzionerà non solo la settima arte ma il comune sentire dilagando in una serie di “nuove ondate” fra Vecchio e Nuovo mondo. Per dare un volto alla rivoluzione formale di Antonioni ci voleva un’attrice non meno radicalmente nuova. E Monica Vitti aveva tutto il necessario. voce roca, espressiva, molto personale; bellezza luminosa ma inquieta, come la sua sensualità decisa senza mai essere vistosa; mani e gambe lunghe e bellissime; recitazione spezzata, interiore, sempre concreta ma naturalmente incline all’astratto, che modellava personaggi e sentimenti mai raccontati prima.

 

Il sodalizio artistico e umano con quel grande regista prima incompreso e poi acclamato avrebbe prodotto quattro film uno più importante dell’altro, anche se fra gli adoratori di Antonioni, oggi forse non numerosissimi ma ostinati (grazie al cielo), le opinioni sono discordi. Ne “L’avventura” la Vitti era Claudia, l’amica di Lea Massari che dopo la sua misteriosa scomparsa intreccia un amore inatteso, contrastato e quasi umiliante col suo fidanzato Gabriele Ferzetti. Un sofferto itinerario di (auto)conoscenza in cui la Vitti già dimostra l’esplosiva vitalità che tornerà nell’improvvisa danza africana de “L’eclisse“ e poi nella seconda parte della sua carriera.

 

Per il momento però la Vitti, che prima dell’ “Avventura” lavorava quasi solo come doppiatrice ed era apparsa solo in commediole dimenticate come “Una pelliccia di visone” con Giovanna Ralli o “Le dritte” con Franco Fabrizi, è tutta di Antonioni. E anche se il regista divide con nettezza la donna dall’interprete («Mi ispira perché mi piace guardarla e dirigerla ma i ruoli che le affido sono il suo opposto, Monica è pura “joie de vivre”»), i tratti, i gesti, gli sguardi indimenticabili dell’attrice in quei primi anni di successo sono inseparabili da quel clima espressivo severo che porta nel cinema il pensiero esistenzialista e le seduzioni dell’informale. Come testimoniano uno dopo l’altro i suoi personaggi antonioniani.

 

Ne “La notte” era Valentina, la giovane solitaria che turba lo scrittore Marcello Mastroianni durante una sfarzosa festa milanese, e ci voleva tutta la sua arte per reggere un personaggio che entra in scena leggendo “I sonnambuli” di Broch e poi coinvolge l’ospite intellettuale in un gioco infantile e provocatorio insieme. Ne “L’eclisse”, il più scopertamente filosofico ma oggi il più visivamente affascinante della tetralogia, è Vittoria, la ragazza che supera la fine di una relazione amoreggiando col fatuo agente di cambio Alain Delon fra paesaggi astratti, vane agitazioni (la Borsa con i suoi clamori), straziati silenzi. In “Deserto rosso”, infine, prima prova a colori del grande ferrarese («Il più bel film di Antonioni ma anche il più difettoso», sentenziò Mario Soldati), la Vitti è Giuliana, madre e moglie in guerra con se stessa e col mondo, nevrotica terminale, suicida mancata. Una pennellata d’angoscia che si aggiunge alla visione mai così estrema di Antonioni e probabilmente accelera la fine del loro rapporto, anche se i due si sarebbero ritrovati molti anni (e molti film) più tardi per lo sperimentale “Il mistero di Oberwald”.

 

Finiti gli anni-Antonioni infatti la Vitti diventa un’altra, almeno sullo schermo. La diva dell’alienazione dà fondo alla vena comica soffocata per anni e impone la prima vera maschera femminile della trionfante commedia all’italiana. Prima timidamente in film a episodi come “Alta infedeltà”, “Le bambole”, “Le fate”. Poi con sempre più decisione in titoli che le assicurano un grande successo anche personale, da “Ti ho sposato per allegria” di Luciano Salce (da Natalia Ginzburg) all’indimenticabile siciliana di “La ragazza con la pistola” di Monicelli, da “Amore mio aiutami”, di e con Alberto Sordi, a lungo uno dei suoi titoli più popolari, a “Dramma della gelosia: tutti i particolari in cronaca” di Ettore Scola, dove è memorabile come fioraia contesa fra l’operaio Mastroianni e il pizzaiolo Giannini in un film anche narrativamente in bilico fra l’ambiente popolare che mette in scena e il registro quasi d’avanguardia del racconto.

 

Senza dimenticare “Modesty Blaise” di Joseph Losey, cine-fumetto in anticipo sui tempi; i film girati col troppo dimenticato Franco Giraldi, “Gli ordini sono ordini“ e soprattutto “La supertestimone”, dove è la zitella che prima accusa il magnaccia di omicidio poi si ricrede, lo scagiona, lo sposa e finisce sul marciapiede, uno dei suoi ruoli più divertenti. O “La Tosca” di Luigi Magni, altro personaggio memorabile in cui dà fondo alla sua fantasiosa romanità. E naturalmente quelli cuciti su misura per lei e diretti dal suo nuovo compagno Carlo Di Palma, “Teresa la ladra”, “Qui comincia l’avventura”, “Mimì Bluette, fiore del mio giardino”, o da Marcello Fondato, “Ninì’ Tirabusciò, la donna che inventò la mossa”. In un prodigarsi di prove che non sempre rende giustizia alla sua arte, ma le consente di partecipare a uno degli ultimi grandissimi Bunuel, “Il fantasma della libertà”.

 

Da più di vent’anni ormai, dopo le ultime apparizioni e un tentativo da regista rimasto senza seguito, “Scandalo segreto”, viveva appartata, minata dalla malattia, tenuta rispettosamente a distanza da un mondo dello spettacolo che le doveva molto ma che nel frattempo era cambiato in ogni sua fibra, e non necessariamente in meglio. Destino malinconico di un’attrice che fu grande e coraggiosa, forse più del suo stesso cinema.

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