Ho visto cose
La vittoria giusta di Blanco e Mahmood con “Brividi” chiude il festival dei record. Che ha regalato una parentesi di inusitato ottimismo e cavalcato la voglia di leggerezza
di Beatrice Dondi
Sanremo si chiude con semplicità: regalando la vittoria a chi doveva vincere dalla prima nota della prima sera. Uno scettro giusto, come i sorrisi di Blanco e Mahmood, che in una giostra di coriandoli, tra i veli di Elisa e l’euforia di Gianni Morandi cercano la mamma tra il pubblico, col premio stretto tra mani, uomini bellissimi e giovani e sontuosamente bravi, capaci con “Brividi” di scompigliare le carte a colpi di emozione.
E forse anche per questo è stato il Sanremo più amato da mille mila anni, da quelli per capirci in cui imperava Toto Cutugno al secondo posto e c’era una liturgia impettita da rispettare. Presentazione glaciale per non influenzare il voto, esibizione, codice, pausa e poi eventualmente un sorriso di circostanza. Quest’anno con l’Amadeus ter invece è andato tutto a rotoli e una volta tanto è meglio così. Perché non si sa bene come in questa ultima sera in particolare ci si è ritrovati in una grande festa di fine anno, come quando si buttano i diari dalla finestra della classe e ci si permette di fare le battute anche al prof più ingessato. È stato il festival della scioltezza, della sciarpa del Milan, di papalina, dei bis, delle imprecazioni, delle risate a caso, dei fiori a tutti, della mia Liguria, delle canzoni spoilerate, dei testi cambiati, è stato il festival delle libertà, dove ognuno ha fatto un po’ come meglio credeva senza neppure pensarci troppo. È stato anche il festival scoperto da una generazione che fino a ieri guardava i genitori che lo seguivano come degli alieni in salotto e che invece all’improvviso si è ritrovato a considerarlo come plausibile.
Così siamo finiti in una sorta di bolla di inusitato ottimismo, una grande parentesi per far finta che anche fuori si potesse dire a cuor leggero “Fottitene e balla”.
E si è ballato, persino nella platea insolitamente scapigliata dell’Ariston che ha accolto con il medesimo entusiasmo l’inno al sesso gioioso di Rettore e la banda della finanza che intonava “Armi e brio”. Come se un desiderio folle di inutile leggerezza si fosse fatto strada con la forza, sera dopo sera, un rilassamento collettivo capace di montare come un’onda, sulla cui cresta milioni di persone si sono ritrovate a guardare la solita solfa che prendeva un colore diverso e perdeva i suoi riti per diventare un gioco comune. D’altronde come ha detto Sabrina Ferilli, la leggerezza non è superficialità, liquidando l’infinito dibattito sulla presenza delle donne con una sola impeccabile frase: «Perché devo parlare di qualche problema per giustificare il fatto di essere qui?».
Sanremo si è concesso a un pubblico che aveva fisicamente bisogno di una pausa di rimozione anche se per liberarsi da quel filo di senso di colpa che va sempre a braccetto con l’evasione si è obbligato a mettere dei puntelli educativi, costellando lo spettacolo dai messaggini di buon senso.
E tra gli abbracci e qualche sospiro di sollievo si chiude così, la lunga maratona elettorale sanremese, e si vorrebbe rimanere chiusi lì in quel teatro. Anziché ricominciare a guardare al domani per dire ti vorrei amare, ma sbaglio sempre.