«Che io stia bene o male è necessario poter riportare su carta i miei stati d’animo». Colloquio con l’illustratore firma de L’Espresso

Pochi artisti hanno l’urgenza di disegnare che ha Andrea Calisi. Le immagini escono fuori dalla sua testa e dalle sue mani in modo frenetico e quotidiano, quasi a voler raggiungere il prima possibile uno stile definitivo. Matite, chine, computer. Il mezzo non conta per Calisi, conta solo la realizzazione dell’opera. E così flussi di segni, di texture, di palette cromatiche si sovrappongono di giorno in giorno, di settimana in settimana, di mese in mese.

Nell’ultimo anno c’è stato il periodo bianco, in cui personaggi a tratto di china fluttuano, o scìano, su campi immacolati; il periodo della natura, pieno di boschi, ruscelli e vegetazione; le immagini letterarie, che reinterpretano copertine di grandi classici; i giovani, ragazzi solitari o in coppia, che attraversano paesaggi metropolitani. Andrea Calisi è in grado di disegnare tutto e il suo contrario: la sua arte è una somma di elementi ma è anche sottrazione. Mi chiedo l’origine, il motivo di questa sua splendida bulimia artistica. Forse perché questa professione che ama ha iniziato a esercitarla da poco, e in età adulta? O forse perché non è un lavoro ma è una passione? Lo chiedo direttamente a lui, illustratore che collabora costantemente con L’Espresso e che ne è diventata una firma.

 

Andrea, da dove nasce questa necessità di disegnare continuamente? Tu la percepisci come tale o è un processo più naturale?
È senz’altro un processo naturale delle cose. Che io stia bene o male è necessario poter riportare su carta i miei stati d’animo, poi ci sono periodi che disegnare nasce per dare voce a quello che gli inglesi chiamano “ “stream of consciousness”, una libera rappresentazione dei propri pensieri. Il resto, piano piano, prende forma da sé.

Mi racconti il tuo percorso di formazione artistica?
Ho studiato all’istituto d’arte di Perugia, poi mi sono iscritto a Lettere con indirizzo storico artistico, facoltà abbandonata quasi subito. Verso i vent’anni ero molto inquieto, non amavo molto studiare nell’interpretazione più classica del termine Diciamo che la vera formazione artistica è nata lavorando con l’art-therapy in un centro semi residenziale per ragazzi affetti da patologie psichiatriche. Ecco, quello è stato un vero punto di partenza: esprimere emozioni, raccontare il disagio sociale, ascoltare la voce e il dolore di ragazzi alla ricerca del proprio sé perduto. È stato fondamentale. Ho bellissimi ricordi di quel periodo, come pure del successivo importante lavoro come maestro in una scuola d’infanzia. Disegnare insieme a bambini così piccoli, raccontare storie, giocare è stato magnifico, una finestra aperta sul mondo dell’infanzia. L’improvvisazione artistica priva di strutture mentali che hanno bambini di quell’età mi ha sempre colpito. La loro freschezza ti spinge davvero in luoghi inesplorati.

Io ti ho conosciuto grazie a Riccardo Falcinelli, grafico, art director e autore di saggi, che per primo mi ha parlato di te. Ti aveva da poco commissionato una copertina per Einaudi Stile Libero e di lì in avanti ne avreste realizzate molte altre insieme. Ti ricordi com’è iniziata la collaborazione con lui?
Riccardo mi seguiva da diverso tempo, anche insieme a Monica Aldi, altra fantastica art director di Einaudi. Di lì a poco con Riccardo abbiamo iniziato a lavorare alle copertine della scrittrice siciliana di gialli Cristina Cassar Scalia. Sia Riccardo che Monica sono due professionisti straordinari, molto seri, scrupolosi. Per me è un piacere lavorare con loro, sono un continuo stimolo.

Poi è arrivato L’Espresso, con l’illustrazione editoriale. Che differenza c’è tra disegnare una copertina di libro e un articolo di giornale?
Secondo me la differenza è nella tempistica di consegna del lavoro. Per la copertina di un libro il processo creativo può essere maggiormente sedimentato, ci si può tornare sopra anche dopo qualche settimana, a differenza di un’illustrazione per un giornale dove inevitabilmente si fanno i conti con i tempi stretti. Per il resto trovo molte analogie: tirare fuori dal cilindro un’immagine che descriva quello che viene raccontato. Non è facile per nulla, tuttavia quando riesci ad evocarne i contenuti è una grande soddisfazione. Anche perché tutte le parti chiamate in causa (dall’illustratore all’art director, passando pure per il lavoro finale del grafico) hanno saputo lavorare in una perfetta sinergia.

Quali sono i tuoi riferimenti artistici?
Sono talmente numerosi che solo ad elencarli finirei domani. In ogni caso (inutile nascondersi) Lorenzo Mattotti, Andrea Pazienza (letto e straletto intorno ai vent’anni, gli anni inquieti per intenderci), Josè Munoz, Alberto Breccia, Art Spiegelman, il tormento di Van Gogh, di Schiele, la ricerca di Cezanne, impressionisti ed espressionisti e il loro colore dell’anima. Ma ne cito solo alcuni. Lo vedi? Come si fa a elencarli tutti?

È da poco uscito “Baci”, un libro di Edizioni Corsare in cui hai illustrato i testi poetici di Guia Risari. Che volume è?
“Baci” è uscito in un momento abbastanza particolare della mia vita, ma disegnarlo è stato per me una vera forza propulsiva, un viaggio catartico. I testi di Guia Risari sono meravigliosi. Insieme abbiamo raccontato - lei scrivendo e io disegnando - quello che ogni giorno possiamo perdere e ritrovare, in un lungo e instancabile peregrinare alla ricerca di emozioni.