Con Emodj e Toussa il Senegal indica una via femminista al wrestling e al rap

Un documentario dedicato a due giovani donne unite da una passione che le porta a sfidare tabù e tradizioni. Nel documentario di una regista austriaca che mostra in giro per i festival un’immagine diversa di Dakar e dintorni. Dalla newsletter de L’Espresso sulla galassia culturale arabo-islamica

Un film che faccia capire ai giovani che possono ottenere tutto quello che vogliono, se la passione e l’impegno sono abbastanza forti, che non ci sono ruoli o sport adatti solo ai maschi o alle femmine. Una storia che porti i ragazzi a discutere sul fatto che ogni Paese, ogni cultura, hanno i loro tabù, che tutti mettono i bastoni tra le ruote alle aspirazioni di chi vorrebbe fare qualcosa di fuori dall’ordinario, e che tutti meritano di essere combattuti con le stesse armi: la determinazione, l’allenamento, la disposizione ad imparare sempre di più. Tutto questo è “Mane”, un documentario che arriva dal Senegal ma ha una regista austriaca, Sandra Krampelhuber. Accolto con grandi lodi nei festival (dall’Africa Festival di New York a quello di Bristol, dall’Austria al Portogallo, e nelle più importanti rassegne africane), è in arrivo a Dakar (Film Femmes Afriques), Montreal (Vues D'Afrique) e in Belgio (Afrika Filmfestival di Lovanio). Sperando di poterlo presto vedere anche in Italia.

ISCRIVITI ALLA NEWSLETTER GRATUITA ARABOPOLIS

Con immagini di una nitidezza ipnotica e una narrazione che alterna i ritmi senza tempo della vita in un villaggio senegalese a quelli sincopati dello hip hop e dello sport, “Mane” (significa “io” in wolof) mette a confronto due giovani donne che hanno scelto una strada diversa da quella che famiglia e società si sarebbero aspettate per loro. Toussa vive a Dakar ed è una rapper, Emodj viene da un villaggio del sud e fa wrestling. Tutte e due uniscono, nella loro attività, tradizioni locali e influenze esterne: in particolare Emodj, che incorpora il wrestling occidentale con lo “ekolomodj”, una forma di lotta femminile usata tra gli joola del sud del Senegal.

Tutte e due combattono contro una pressione non dichiarata (in Senegal, a differenza di altri paesi a maggioranza musulmana, non ci sono attività “da maschi” vietate per legge alle donne) ma proprio per questo più subdola: lo fa capire Toussa quando racconta dell’amico che dice a suo fratello: «Ma tua sorella perché non impara a cucinare invece di fare musica?». E tutte e due vincono: vediamo Toussa rappare in wolof dal palco di festival e concerti, mentre Emodj si allena, combatte con uomini e donne e sogna di diventare come la sua allenatrice, Isabelle Sambou, che è stata per anni campione d’Africa e nel 2012 campione del mondo di Beach Wrestling.

Arabopolis01.03.22_MANE_Toussa2

Nessuna delle due conta di sfruttare il successo per lasciare il Paese, per cercare una vita più facile in un continente più ricco, anzi: l’impegno per cambiare la società dal di dentro è una delle note più interessanti del film. Che Marame Gueye, professore di letterature africane e della diaspora in North Carolina e critico del sito “Africa is a country”, ha definito «una boccata d’aria di cui si sentiva davvero il bisogno nel racconto della “generazione hip hop del Senegal”, così saturo di uomini».

Ne abbiamo parlato con Sandra Krampelhuber: regista di Linz, ideatrice dell’Africa Futurisms Festival della kermesse femminista Unruly Thoughts, ha alle spalle diversi lavori sulla società e la vita culturale dell’Africa Occidentale, da “Accra Power”, sulla scena musicale della capitale del Ghana, a “100% Dakar – more than art” sugli artisti senegalesi.

 

Cosa lega le storie di Toussa ed Emodj? Rap e sport non sembrano avere molto in comune…
«Hip hop e wrestling (chiamato “la lutte”) hanno una lunga storia in Senegal ma sono due campi che interessano soprattutto la gioventù maschile. Nel mio film ho voluto rompere questo stereotipo raccontando le storie di due giovani donne che si impegnano in questi due ambiti».

 

Ci racconta il rapporto tra tradizione e modernità? Dal suo film si vede che è un legame importante sia nel wrestling che nel rap.
«La tradizione è sempre importante: senza guardare la storia, nessun futuro è possibile. Penso che le due scene che mostrano Toussa con sua nonna, che le dice “Non mi piace la lotta ma se a te piace sei libera di farlo”, ed Emodj con sua madre, che da giovane ha fatto wrestling, lo descrivano molto bene nel film».

 

Le storie delle donne nei paesi islamici colpiscono molto il pubblico occidentale. Forse perché in fondo ci sentiamo più emancipati, pensiamo di avere qualcosa da insegnare. Ma poi ci rendiamo conto che sono loro che hanno molto da insegnarci…
«È così. Il cosiddetto “Occidente” spesso pensa di avere il diritto di giudicare facilmente altri modi di vivere e di pensare prendendo sé stesso per il modo di vivere più “emancipato”, il che spesso non è vero; spesso abbiamo l'arroganza di pensare che "noi" possiamo insegnare a qualcun altro senza guardare quello che è nascosto dietro le tende delle nostre case, senza sforzarci di riconoscere i nostri difetti».

 

Perché lavora in Africa? Ho notato che anche tra le persone che hanno collaborato alla realizzazione del film ci sono solo nomi africani: non è il solito regista europeo che porta da casa tutti i suoi collaboratori.
«Mi sento a casa in Africa, soprattutto in Senegal; in tutto il mio lavoro cerco di sfidare le onnipresenti immagini negative dei paesi africani nei nostri media occidentali, raccontando storie positive, incoraggianti e moderne. Lavorare con una troupe cinematografica senegalese nel mio ultimo film è stato fondamentale, non solo perché ho girato nelle lingue locali (wolof e joola), ma anche per dare più autenticità al mio film. Sentivo anche ill bisogno di una sorta di correttezza: se sono una regista austriaca che va in Senegal a raccontare una storia del posto, il minimo che posso fare è lavorare con una squadra senegalese; senza di loro e il loro supporto questo film non sarebbe stato possibile».

 

Nella parte finale del film è bello l'impegno per migliorare il Senegal: le due ragazze non sognano di avere successo nel mondo, tanto meno di emigrare, ma di aiutare il proprio Paese. È un sentimento diffuso?
«Soprattutto i giovani nel mondo dell’arte e della cultura hanno questo sentimento. E ho la sensazione che stia crescendo la consapevolezza che l'Europa non è un Eldorado. Ma ovviamente c'è ancora un gran numero di giovani, soprattutto maschi, che vogliono emigrare per colpa della cattiva situazione economica, dell’alto tasso di disoccupazione. Sperano di realizzare così i propri sogni, che poi però finiscono quasi sempre infranti».

LEGGI ANCHE

L'E COMMUNITY

Entra nella nostra community Whatsapp

L'edicola

Il pugno di Francesco - Cosa c'è nel nuovo numero dell'Espresso