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La lunga guerra tra Atene e Sparta, così lontana, così vicina
Il conflitto tra le due città. Il declino della democrazia e l’avvento della demagogia, in una storia di amore, lotta, paura. Ricca di spunti che richiamano l’attualità “Pólemos”, il nuovo romanzo di Gianfrancesco Turano
A partire dal 431 a.C., in uno spazio relativamente piccolo di terra che va dall’Attica al Peloponneso, si apre una storia destinata all’eternità. Si tratta di una guerra. Una guerra lunga e distruttiva fra le due principali città greche, Atene e Sparta, che si esaurisce soltanto nel 404, con la definitiva vittoria di Sparta. L’epilogo di quel conflitto, più che sancire la sconfitta di Atene e la fine della gloria raggiunta dalla città di Pericle a metà del V secolo, chiude tutta un’epoca di immense tensioni ideali, il culmine delle quali è la contrapposizione fra due modi diversi di vedere la vita dell’individuo e della comunità. Sappiamo molto di quello scontro. Un acuto osservatore delle vicende politiche, capace di indagare le cause di ogni svolta della storia ripercorrendo i più tortuosi giri che intrecciano le aspettative dei singoli, le ambizioni dei popoli e gli incastri delle contingenze, seguì e raccontò con tanta attenzione lo scontro ideale fra le due grandi città dell’Ellade che il suo resoconto è oggi considerato la prima prova di uno storico moderno. Si chiamava Tucidide e di lui non si sa tutto quel che sarebbe necessario per valutare la lingua stringata e complessa con cui si esprime, la sensibilità verso le dispute oratorie che furono il cardine politico attorno a cui si snodò lo scontro, la serietà di chi vuole restituire un quadro per quanto possibile obiettivo del dramma che racconta. Non sappiamo tutto quel che vorremmo di lui, ma sappiamo che aveva ragione quando si riproponeva di lasciare il suo lavoro come un’acquisizione per l’eternità.
Certo, però, gli esseri umani non fanno tesoro del loro passato. Questo è un dato di fatto scontato per quanto duro da accettare. E dunque il quadro che offrì Tucidide di quei primi anni di guerra non riesce a costituire oggi un buon motivo per riflettere attentamente sul nostro presente e immaginare un futuro. L’essere umano manca della saggezza a cui sempre dice di aspirare e con il suo passato e con la memoria del passato fa il minimo indispensabile. Usa la memoria nelle buone occasioni, nelle giornate dedicate, nei momenti celebrativi. Per il resto poi la butta al cesso e tira la catena.
Ovviamente non tutti hanno letto Tucidide e non a tutti è richiesta una conoscenza accurata di anni in cui accaddero cose che, nell’eterno ritorno dell’identico, sono destinate a ripresentarsi spesso proprio in forme talmente speculari da apparirci come uno scherzo che giochiamo a noi stessi. E tuttavia gli scrittori continuano a fare il loro mestiere e a volte escono libri che possono svegliare le coscienze, alimentare i dubbi, spingere alle riflessioni più inattese, ossia le migliori, visto che nulla, almeno oggi, è meno interessante e utile delle considerazioni sempre uguali e sempre scontate e logore che anni di pandemia hanno sedimentato innestandole definitivamente nell’orrore della guerra.
Dall’obbrobrio del monopensiero ci scuote oggi un romanzo che racconta con gli strumenti narrativi dei nostri tempi i primi anni di guerra del Peloponneso, dandoci la possibilità di rivitalizzare il nostro pensiero critico e guardare anche al nostro presente con una freschezza diversa. È raro che accada qualcosa del genere in letteratura. Ma la contingenza a volte aiuta libri pensati senza alcun intento se non quello letterario e la fortuna premia gli audaci.
Il libro di Gianfrancesco Turano s’intitola “Pólemos”, ossia Guerra (Giunti, pp. 420, € 18) e porta in esergo uno dei più famosi aforismi eraclitei: «Pólemos è padre di ogni cosa, re di ogni cosa, e gli uni mostrò dèi, gli altri invece uomini, fece schiavi gli uni, liberi gli altri». Difficile dare torto a Eraclito. Ma il fatto è che definire libertà e schiavitù, divino e umano, è invece complesso. E nessuna storia può davvero insegnare a farlo se non la riflessione individuale, quella appunto critica, capace di vedere le complessità e le contraddizioni del reale. Un romanzo, tutto questo può farlo con forza e incisività ben maggiori di qualsiasi cronaca attuale. Così le storie che intreccia Turano ci fanno affondare in un tempo che solo apparentemente è lontano oltre duemila e quattrocento anni. Tre sono le voci che seguiamo: Mirrina, giovane ateniese di Eleusi, figlia di un sacerdote addetto ai celebri Misteri; Procle, ragazzo spartano che appartiene all’élite dei migliori; Milone da Crotone, commediografo ambizioso, ambiguo, animato da uno strano tipo di coraggio. Mirrina è in fuga dalla prigionia spartana quando il libro si apre; Procle è nei boschi, armato di un solo coltello, per affrontare il periodo di prova che ogni vero ragazzo spartano deve vivere; Milone è in viaggio verso Atene dove cerca il successo che crede di meritare. Procle e Mirrina si incontrano subito. Solo più tardi si ritroveranno nella stessa casa ateniese dove viene ospitato Milone. È una storia di amore, lotta, sfida, coraggio e paura, da cui difficilmente ci si riesce a staccare.
Il fatto è che Turano ha messo in piedi un mondo, lavorando con enorme conoscenza delle fonti (non solo di Tucidide ovviamente), per raccontarci attraverso le vicende personali di questi tre protagonisti attorno a cui si srotola una miriade di personaggi, fatti decisivi per la comprensione dell’antichità, ma soprattutto dei nostri tempi.
Siamo abituati a non avere alcun dubbio sulla portata dello scontro, per esempio. E invece la storia dell’imperialismo ateniese, con la sua pervicacia nell’esportare la democrazia, appare sullo sfondo di ogni pagina. Mentre le tradizioni spartane ci appaiono in tutt’altra luce, ben più complesse e interessanti di quel piatto conservatorismo a cui una certa tradizione scolastica ci ha abituati.
Assistiamo a battaglie sanguinarie in cui non riusciamo a capire chi abbia vinto e perché. Ci troviamo immersi nel dominio della retorica e della demagogia e ci pare di assistere già alla decadenza della democrazia, alla fine cui una civiltà opulenta e senza nerbo si è consegnata. Vediamo poi sfilare, come controluce, personaggi famosissimi come Pericle e il suo successore, il salsicciaio demagogo Cleone, e non possiamo non vederne aspetti che nessun libro di storia ci aveva insegnato a cercare. Veniamo messi in crisi dalla letteratura insomma. E non c’è niente di meglio che si possa chiedere a un libro.
Durante i primi anni della guerra del Peloponneso, Atene seguì una strategia precisa ispirata dal suo grande condottiero, l’uomo che la guerra l’aveva voluta e provocata per rendere Atene definitivamente grande: Pericle. Poiché la città possedeva il dominio del mare, la tattica prevedeva che si combattesse solo sul mare e che le invasioni spartane delle terre venissero ignorate, mentre gli abitanti delle campagne si rinchiudevano fra le solide mura della città. Quell’affollamento durante le torride estati fu la causa principale di una terribile epidemia. La chiamiamo peste da sempre, ma forse si trattò di altro. “Pólemos” si apre proprio mentre l’epidemia impazza e chi non la conosce ne viene sbaragliato e chi la sottovaluta deve solo affidarsi alla sorte. Fu un momento drammatico che avrebbe però potuto aprire gli occhi a chi lo visse. Il virus infatti fece vittime senza risparmiare nessuno. Morì lo stesso Pericle. Intere famiglie vennero decimate. Ma l’epidemia non servì a scuotere le menti degli uomini che si gettarono in guerra come se questa potesse costituire un motivo di riscatto. Le vicende che Gianfrancesco Turano racconta ci spingono alla crisi. “Krisis” in greco antico significava giudizio, decisione, scelta. A volte non bisognerebbe perdere l’occasione.