intervista
Chiara Valerio: «Vi racconto il mio Dracula queer»
Iper-umani. Sintesi di natura e di cultura. Emblemi di diversità. Portatori di memoria infinita. Due scrittrici dialogano sull’eterno fascino dei vampiri
Ho la felice impressione che sia terminato il tempo in cui in Italia ci si doveva vergognare di leggere e fare letteratura fantasy. Oggi chi la scrive non ha più paura di sembrare poco “autoriale” e chi la legge non viene più accusato di essere un irresponsabile escapista. Cosa è cambiato?
Chiara Valerio. «Io penso che in narrativa italiana il fantasy sia sempre stato carsico. D’altronde la letteratura italiana si fonda su un poema fantastico, la Divina Commedia, e fantastico è Ariosto, così come in Grazia Deledda ci sono le panas, le banshee. Penso a Fruttero&Lucentini o Ammaniti. È una linea che ha continuato a esistere, nonostante non sia stata rivendicata da nessuno».
Michela Murgia. «Mi vengono in mente anche Pugno, Avoledo e Lipperini».
CV. «Spunta anche in romanzi apparentemente realisti. Pennacchi ha vinto lo Strega con una storia in cui le api indicano ai personaggi il percorso per uscire da un campo minato. Fleur Jaeggy nei suoi libri o anche semplicemente quando osserva “S’immaginano parole per raccontare il mondo e per sostituirlo”. Ti viene in mente qualcosa di più creepy?».
MM. «Non abbiamo distopie o ucronie recenti però, a parte “L’inattesa piega degli eventi” di Enrico Brizzi».
CV. «E Michele Mari, pensa a “Le maestose rovine di Sferopoli”, utopie che falliscono».
MM. «Il fantasy altrove è stato lo strumento per rivelare la cattiva coscienza del reale. Noi non siamo portati per natura a riconoscerci in modo diretto. Abbiamo sempre bisogno di essere mediati dalle storie. Nella Bibbia il profeta Samuele costringe re Davide a prendersi le sue responsabilità nell’aver sedotto la moglie di un altro facendolo indignare col racconto di un uomo ricco ed egoista che deruba un povero. I narratori che si rivolgono al fantasy sono spesso motivati dal desiderio di creare questa epifania. Quella del fantasy non è una non-realtà, ma una iper-realtà, traslata in un punto in cui tu la puoi accettare come responsabilità. Nel tuo romanzo il desiderio di restituire la realtà è visibile anche nella ricerca miniaturista delle geografie e dei particolari storici. È come se dicessi: io sono in grado di restituirti la realtà in quattro dimensioni, quelle tangibili dei sensi e quella dell’immaginario, ma dentro ci metto una cosa che tu nella realtà non sei in grado di riconoscere, che è il vampiro. Dracula, al secolo Giacomo Koch, nel romanzo è una persona ed è una iper-persona, perché è se stesso, ma con l’archeologia di tutte le persone incontrate, che sono la sua unica unità di misura del tempo. Mi piace che abbia un gatto, una creatura tipicamente fantasy, perché è un animale da soglia, continuamente tra il dentro e il fuori. L’unico modo per addomesticare un gatto è lasciare la porta aperta. Questo libro qui somiglia a un gatto perché fa la stessa cosa: reale e irreale hanno come soglia la letteratura che consente loro di stare lì entrambi. Perché hai avuto bisogno di raccontare un vampiro? Dei vampiri si pensava detto tutto».
CV. «Sul vampiro, come su Sherlock Holmes o certi concetti di matematica o fisica, come su Roma e Venezia, città dove il libro è ambientato, c’è una letteratura e una immaginazione sovrabbondante. Tutti hanno un’idea del vampiro, di Roma, di Venezia e della matematica. Dracula, che arriva in Occidente qualche decennio prima del gatto di Schroedinger, anticipa la possibilità di coesistenza di vita e morte. I vampiri letterariamente nascono con le migrazioni, quando un gruppo con certe abitudini incontra un gruppo con altre abitudini. Coincide con l’immaginazione che ciascuno di noi ha dell’estraneo, dell’altro».
MM. «E della memoria. Lui è l’unico che davvero ricorda i secoli, in un mondo dove noi non siamo in grado di ricordare nemmeno quello che è successo negli ultimi 20 anni. Non immagino inferno peggiore, perché essere il tuo testimone ti rende anche il tuo giudice. Dimenticarci di cosa abbiamo fatto, di cosa siamo stati, è un modo per sopravviverci. Il vampiro non ha la consolazione dell’oblio».
CV. «Però è quello che cerca, perché l’oblio è cambiamento. Il vampiro coincide con chi accetta la metamorfosi, per questo il mio Dracula odia ciò che trasforma il diritto acquisito in privilegio. La metamorfosi mischia le carte, è dadaista, scompagina, rinnova, sorprende, ammazza anche talvolta. Il rapporto tra memoria e possibilità di cambiamento lo ha investigato benissimo Ishiguro ne “Il Gigante sepolto”, dove appare chiaro che non si è costretti a decidere se sia meglio dimenticare o ricordare, quanto continuare a chiederselo ogni volta».
MM. «Lo ha fatto anche Ursula Le Guin in “Quelli che si allontanano da Omelas”, dove ogni cosa andrà bene solo finché un bambino innocente, nelle segrete, continuerà a essere torturato. Quanta ingiustizia siamo disposti a fare per essere felici? Può chiederlo solo il fantasy, perché il romanzo realistico ti schiaccia con l’evidenza che il colpevole sia tu. Anche il vampiro ci ribalta la prospettiva e per questo mi chiedo perché lo usiamo per dire male di una persona che si appropria dell’energia degli altri. L’unica creazione di alterità che facciamo attraverso il sangue alla fine sono i figli. Il primo atto vampirico lo fa il bambino nella pancia della madre, quando le succhia il sangue e le energie per generare la propria vita. Nessuno nasce, nessuno cresce, se non si appropria del sangue di qualcuno».
CV. «Infatti questo Giacomo Koch, a metà degli anni Cinquanta del Novecento, va da Carl Jung a dire “io voglio succhiare solo esseri umani appena morti”. Quando capisce che la gravità consente a tutti un ultimo respiro, perché il sangue va verso il basso, cioè che ciò che scorre è vivo, va a dire di non voler più uccidere. Jung gli risponde: “Allora ucciderete come tutti, per vendetta o per gioco, e non per sussistenza”. Dracula però non lo capisce. Il vampiro è quintessenziale rispetto all’eternità, alla durata e questa durata non va solo nel futuro, ma anche nel passato, perché è vero che nessuno nasce senza nutrirsi del sangue di un altro. Il cordone ombelicale non ha denti, ma è comunque vampirismo».
MM. «Il vampiro è come se fosse il bambino avido nel ventre del mondo, ma ovviamente, essendo eterno, non ha bisogno di nascere. Per un sacco di tempo ho giudicato la rapacità altrui, dicendo “ah, quello è un vampiro”, ma anche io nella vita, per natura e per mestiere, non ho fatto altro che vampirizzare».
CV. «Ed essere vampirizzata».
MM. «Anche, ma come molti e molte che incontrano Giacomo, in fondo non mi dispiace, perché capisco che è un atto generativo».
CV. «Un atto generativo non binario».
MM. «Per uno che trova interessante il sangue, ha senso che genere ed etnia non contino. Ma tornerei sull’immortalità. La questione comincia nella Genesi, dove gli alberi proibiti sono due: quello della conoscenza e quello della vita. A quest’ultimo Dio non permetterà ai progenitori di arrivare, perché conoscere ed essere immortali sono due condizioni che insieme generano il vampiro, non l’umanità. Quando Giacomo offre l’immortalità ad alcune creature che incontra ed esse la rifiutano, fanno un atto che ripara alla cacciata dall’Eden. Sembrano dire: se vuoi veramente la mia compagnia, lasciami questa specialità. Se ci raggiungessimo nel tempo, che interesse potresti continuare a provare? Che cosa avrebbe Carl Jung a dire a Giacomo Koch se fosse eterno?».
CV. «Infatti Jung non accetta. Anche Giacomo, quando si innamora di nuovo, non vuole che lei diventi vampiro, perché l’unica forma di amore è la finitezza, e questo mi pare un grande consiglio di Dracula rispetto alle nostre relazioni: non ci preoccupiamo se finiscono, perché se finiscono sono esistite».
MM. «Ti sei inventata il fatto che gli animali possano essere vampiri, non solo vampirizzati. Zibetto, il gatto del conte, per esempio».
CV. «Zibetto è Miles, il mio gatto».
MM. «E se avessi avuto un cane? Nessuno crederebbe a un cane vampiro».
CV. «Mi piaceva molto l’idea del vampiro affiancato dal famiglio delle streghe, perché volevo dare a questo Conte i difetti storicamente attribuiti alle donne maghe o streghe. La strega sta lì col pentolone e con il gatto, e il Conte sta lì a rimescolare il sangue umano. La pozione di Dracula è che il meticciato è l’unica condizione possibile. Mi interessava presentarlo con caratteristiche percepite o immaginate sia maschili che femminili, perché maschile e femminile sono una forma di cosplay, e il massimo cosplay dell’umano che mi è venuto in mente è il vampiro, con oggetti e attributi, anche vivi, che confondessero i generi. È un vampiro queer».
MM. «Ci sono diversi modi di essere vampiri nel tuo romanzo. I rapporti del personaggio di Mina Harker con gli esseri umani sono diversi da quelli di Giacomo Koch. Mina è una predatrice e lo rimane anche quando ama».
CV. «Perché il vampirismo di Mina è recente, mimato, è ancora culturale, mentre quello di Dracula è così risalente da essere naturale. La differenza è la stessa che passa tra quelli che parlano inglese molto bene disinteressandosi dell’accento, e quelli che arrotano la r perché almeno la pronuncia sia perfetta. Quando la cultura non ha fatto in tempo a diventare natura, può diventare artificiale».
MM. «Il vampiro tradizionale non può essere fotografato né guardare negli specchi, perché non vi appare o appare nella sua realtà piena, che è inguardabile. Nel tuo Dracula questo tabù non c’è».
CV. «Perché il mio conte incontra Carl Jung, che gli fa scoprire di essere innamorato dell’umano, dunque dei limiti. Non avendone di temporali, se ne è dati di spaziali: cose come non vivere alla luce, non passare in certi posti, non sopportare l’aglio. Erano fisime sue, malattie immaginarie ma comunque dolorose, come diceva Natalia Ginzburg. L’unica cosa che ho lasciato è che il Conte deve chiedere il permesso per accedere in un luogo dove c’è la vita nella sua forma umana. Questo ribadire l’esistenza della soglia è l’unica sua limitazione. Gli specchi invece no. Eppure quando rientra a prendere possesso del suo castello tutto rifiorisce, ma gli specchi rimangono incrinati o senza argentatura. Dracula è un essere relazionale, sa che se vuole guardarsi deve farlo negli altri, gli specchi incrinati stanno lì a ricordargli che per vedere se stesso deve guardare fuori».
MM. «Gli esseri umani possono farsi un selfie, il vampiro no?»
CV. «Al vampiro non interessa. Se il nostro specchio sono solo gli altri, è pericoloso o no? Riusciamo a tenere insieme gli altri e il selfie oppure no?».
MM. «Abbiamo una guerra vicina e il nostro specchio ora sono i profughi. Ho sentito molte volte dire “prendiamo gli ucraini, perché sono come noi”. Quanta gente con la pelle nera è morta nel Mediterraneo solo perché non ci somigliava? Sembriamo incapaci di riconoscere qualcosa di diverso dal selfie. In questo il tuo vampiro è più umano di noi».
CV. «È iper-umano. Assomma tutti i difetti, ma pure le aspirazioni e le intenzioni. Quando Giacomo Koch vede sugli schermi un gommone lasciato affondare nel Mediterraneo, riflette sul fatto che siamo talmente vicini a confondere gli esseri viventi con la merce che cominciamo a sperimentare nuove vie di logistica. A lui questo fa schifo, ma non per morale, per logica. Odia la stupidità e si chiede come si fa a fermare o irreggimentare la tensione dell’umanità a spostarsi. Il conte stesso è emigrato. La migrazione porta storie e lui è preoccupato che volendo fermare gli esseri viventi, questo Occidente spenga le storie che quegli esseri umani rappresentano».
MM. «In questo momento il concetto di spostamento fa rima con contagio. Il coronavirus continua a muoversi da un continente a un altro coi nostri corpi. Per molti la stasi è una sicurezza».
CV. «È sempre una sicurezza, ma da Kafka in qua sappiamo come si finisce: soffocati. Dove non c’è ricambio d’aria, dove non c’è contagio, non c’è vita, è questo il Conte lo sa».
MM. «Sterile in italiano vuol dire sanificato dai batteri e dai virus, ma anche incapace di generare. È una lotta tra cultura e natura».
CV. «Per il Conte tra natura e cultura non c’è differenza, per Mina sì. Per lei il vampirismo è un’aristocrazia a cui è ancora sorpresa di appartenere».
MM. «Mimare quello che pensi sia l’aristocrazia è un atteggiamento borghese».
CV. «Da parvenue».
MM. «Parvenue all’eternità».