Gogol scriveva in russo. Celan era un poeta ebreo di lingua tedesca. Roth un romanziere sempre di lingua tedesca ma austroungarico. Secondo le mappe, però, erano tutti ucraini. Il presidente russo ha riportato d’attualità il tema delle frontiere e l’illusione della loro estinzione

Cominciamo con un elenco di nomi: Mikhail Bulgakov, Nikolaj Gogol, Anna Achmatova, Paul Celan, Joseph Roth. Aggiungiamo qualcuno meno conosciuto: Sholem Alechem, Vladimir Zabotinski e, ancora, Stanislaw Lem. Se volessimo seguire le indicazioni delle mappe geografiche sarebbero tutti quanti scrittori o poeti ucraini, perché in Ucraina sono nati. Però: i primi tre scrivevano in russo e fanno parte della storia di letteratura russa. Celan era un poeta ebreo di lingua tedesca, Roth un romanziere sempre di lingua tedesca ma austroungarico, Sholem Alechem fu fra i fondatori della letteratura yiddish, Zabotinski oltre che leader sionista era poeta in russo e in ebraico moderno, Lem infine era un grande scrittore polacco di fantascienza. E se vogliamo continuare: il filosofo Isaiah Berlin era nato a Riga ma non si considerava un filosofo lettone. Marc Chagall mosse i suoi primi passi a Vitebsk in Bielorussia, ma non era un pittore bielorusso e via elencando.

 

E allora, abbiamo un problema con la geografia? Sì, perché la mappa del globo terrestre non corrisponde alle mappe delle appartenenze, identità, memorie e storie di vite vissute - nostalgie comprese - di quello che realmente è ed è stata l’Europa. Una cosa sono le identità (al plurale), lingue, memoria, altra cosa i confini. E se lo avessimo dimenticato perché viviamo in un’epoca in cui il tempo tende ad abolire lo spazio e perché nel Vecchio Continente le frontiere in pratica non esistono più (salvo che per i migranti), ci ha pensato Vladimir Putin a ricordarcelo: per questioni di territorio e quindi delle frontiere e di geografia si può fare la guerra. E allora, cosa sono i confini e il territorio? A cosa servono? L’abbiamo chiesto a un geografo e ad alcuni storici.

 

Il geografo, il più importante in Italia, è Franco Farinelli. Alla domanda su cosa sia il confine risponde: «Una volta era un fascia di rispetto», un terreno non ben definito e dove «confine significa che delle differenze vengono a toccarsi. I confini diventano invece geometrici con la modernità, quando alla faccia della Terra si dà la forma di una mappa. Il confine assume così le sembianze di una linea». Prosegue: «Uno Stato per esistere deve avere un territorio. Ma il territorio, a sua volta, deve obbedire a tre caratteristiche: continuità, omogeneità e isotropismo (tutte le parti racchiuse geometricamente devono essere voltate nella stessa direzione). In quel contesto lo Stato e quindi il territorio deve essere fatto dalla stessa sostanza: stessa lingua e possibilmente stessa religione». E sempre seguendo le regole della geometria di Euclide applicata al territorio, le capitali degli Stati moderni vengono fissate al centro.

 

Un esempio? «Ataturk sposta la capitale della Turchia dalla splendida Istanbul ad Ankara». E i bolscevichi che trasferiscono, sempre la capitale, da San Pietroburgo a Mosca. E così si torna a parlare di Putin e della sua guerra. «Putin agisce in base al principio di omogeneità. Dove si parla russo è la Russia». Inutile aggiungere che a questo punto gli ucraini, anche quelli russofoni, insistono invece a voler smettere di parlare il russo e a usare esclusivamente la lingua ucraina.

 

Così torniamo all’apparente inadeguatezza della geografia. Farinelli spiega ancora quanto l’invenzione di confini orografici, “secchi e umidi”, dove per secchi si intendono le montagne e per umidi i fiumi, sia del tutto arbitraria e cita l’esempio degli Urali, convenzionalmente confine dell’Europa, e che però non è un confine perché non divide né unisce l’Europa all’Asia ma è solo una linea più o meno retta sulla superficie della Terra.

Cultura
L’anima russa è solo uno stereotipo
4/4/2022

Ma ecco, a questo punto va introdotta la Storia. Poco più di cent’anni fa abbiamo assistito alla dissoluzione di tre grandi imperi in Europa: quello zarista, quello asburgico e quello ottomano. In quei territori le città erano popolate da persone di diverse lingue, fedi religiose, appartenenze. Per fare tre esempi: a Salonicco ottomana c’erano greci, turchi, ebrei, armeni e via elencando; a Czernowitz asburgica si parlava tedesco, yiddish, rumeno, russo, ucraino e potremmo continuare; a Vilnius sotto gli zar gli idiomi correnti erano: il polacco, lo yiddish, il lituano, il russo, e ancora altre lingue. In quelle città, quando gli imperi cessarono di esistere, e specie dopo la prima guerra mondiale, era impossibile tracciare confini geografici fra le varie popolazioni.

Nel corso dell’Ottocento, però, nasce un fenomeno nuovo: la questione nazionale. Ne parla Holly Case, della Brown University, in un affascinante libro, “L’età delle questioni. Politica e opinione pubblica dalle Rivoluzioni alla Shoah”, in Italia pubblicato da Carocci, con l’introduzione di Marco Bresciani (uno degli storici più intelligenti della nuova generazione). La tesi della studiosa, semplificando, è questa. C’è stato un secolo lunghissimo, durato circa duecento anni: dalla seconda metà del Settecento e fino agli anni Settanta del Novecento. Nel corso di quel secolo tutte le questioni - e lei le elenca: nazionale, sociale, femminile e via dicendo - sembravano legate fra di loro. Dare il nome e la definizione alla questione pareva già indicare la strada per trovarne la soluzione.

 

L’epoca di cui parliamo segna pure la nascita di un’opinione pubblica “internazionalizzata”, per cui, ad esempio “la questione polacca” (liberazione dal gioco zarista), diventa una questione “europea” che si lega a sua volta alla questione “orientale”, ossia il processo della dissoluzione dell’Impero ottomano e della rivalità con quello zarista e così via. Dice Case che, nella percezione dell’opinione pubblica, le vie della soluzione definitiva di tutte le questioni erano tre: federazione europea, rivoluzione sociale (cui aspiravano i socialisti e gli anarchici) e infine costituzione degli Stati nazionali, dove per nazionale si intende etnico. Abbiamo parlato di Ataturk, padre della Turchia modena. Ecco, Ataturk era nato a Salonicco. Rispettando le mappe geografiche di oggi sarebbe stato quindi greco. Ma non lo era. E, parlando al telefono, Case lo porta ad esempio: Ataturk ha rinunciato all’Impero (compresa la nostalgia) per fondare invece uno Stato nazionale moderno.

 

E così siamo arrivati all’idea della costruzione di uno Stato nazionale. E al diritto all’autodeterminazione, una formula, ricorda lo storico Bresciani, cara ai bolscevichi e al presidente statunitense Thomas Woodrow Wilson e che emerge con tutta la forza alla fine della Prima guerra mondiale, quando appunto i tre Imperi vanno a pezzi (quello zarista però muta pelle e si reincarna parzialmente in Unione Sovietica, ci torneremo). Qualche anno prima, di fronte al montare dei nazionalismi etnici nell’Impero asburgico, i socialisti austriaci pensavano che la “soluzione” giusta fosse separare la cittadinanza dal territorio. Sembra complicato ma è semplice: per esercitare i diritti collettivi, in quanto cèco o polacco, per fare due esempi, non occorreva fondare nuovi Stati, ma permettere invece a ogni nazionalità di creare le proprie scuole, Università, istituzioni autonome. La Storia andò diversamente. Si optò per tanti piccoli e medi Stati, con la pretesa di omogeneità, di cui parlava Farinelli. Però, come dividere, fra le varie nazioni nascenti o rinascenti le città dove le popolazioni non erano omogenee? Brutalmente, con pratiche che ricordano pulizia etnica o guerra civile; con l’inevitabile e triste corollario dei pogrom contro gli ebrei.

[[(gele.Finegil.StandardArticle2014v1) WLODEK_UCRAINA_12]]

Dan Diner, storico tedesco-israeliano, autore di libri fondamentali sul Novecento, affronta la domanda con cui siamo partiti, su cosa sono i confini, partendo da lontano. Dice, parafrasando Carl Schmitt, teorico della politica: «La geografia conta fino a un certo punto. Il potere è tellurico, legato alla Terra e il territorio è una proiezione e metafora della Potenza». Fa un passo indietro, per riflettere sulla questione nazionale nel passato e dice: «Là dove in Occidente c’erano le barricate, nel corso dell’Ottocento e Novecento, all’Est si sono invece costruite le frontiere». Tradotto: la guerra civile in Europa ha due volti, quello di classe e sociale all’Ovest, e quello di appartenenze linguistiche, di fede e di tante componenti che qualcuno chiama etniche, nell’Est. Ma anche all’Est appunto, spesso l’appartenenza etnica coincideva con status sociale. Ne facciamo un esempio del recente passato. Nella Polonia prebellica gli ucraini erano considerati alla stregua di “minoranza nazionale”, un modo per dire che il Paese era dei polacchi (etnici). In teoria i loro diritti erano garantiti con quello status. In realtà si trattava di un brutale dominio su una popolazione per lo più contadina.

 

E oggi? Dice Diner: «Il problema è lo spazio della Russia. È uno spazio concavo che può essere riempito con varie sostanze. Una volta la sostanza era zarista, poi sovietica, ora con Putin è un miscuglio di vari simboli e tradizioni, un sincretismo fra stalinismo e imperatori». E i confini? «Anche su questo c’è incertezza. Non si sa bene cosa sia la frontiera russa. È un confine netto? O è appunto una frontiera porosa, dove chi governa decide a seconda del momento come agire su quel terreno?». Continua Diner: «Napoleone Bonaparte diceva che il confine è quella cosa davanti a lui». E Putin come la pensa? Risposta: «Il fatto è questo. l’Ucraina, a partire dal nome, significa frontiera, e storicamente è luogo di passaggio». Però? «Però, per Putin non è una questione geografica, o non solo geografica. Per chi governa oggi la Russia, Ucraina è Maidan», la rivoluzione quindi del 2014 che aveva messo insieme elementi di democrazia e di costruzione di un’identità nazionale ucraina, con la faccia rivolta verso l’Ovest e non verso Mosca.

 

Lasciamo l’ultima parola a Farinelli, visto che si tratta, in fin dei conti, di capire il nesso fra territorio, Stato e geografia e anche del perché Putin insiste nell’affermare che l’Ucraina è solo un’invenzione dei bolscevichi e di Lenin. Dice il geografo: «L’omogeneità è istitutiva dello Stato moderno. Ma l’omogeneità è un prodotto artificiale». Spiega: «La tradizioni statali sono sempre delle invenzioni». Riflette: «L’omogeneità è l’unico elemento, che oggi, al tempo della globalizzazione, non entra in crisi ma anzi diventa decisivo. L’unico prodotto appetibile, appunto, è la cultura, ossia la manipolazione simbolica». E poi spiega: «La guerra in Ucraina non significa la fine della globalizzazione ma fa parte del processo della sua trasformazione». Ma questa è un’altra storia.