All’epoca in cui la Città eterna diventa capitale, preziosi siti vengono distrutti, per cedere spazio alla stazione, ai dicasteri, a numerosi edifici. Due mostre e un libro rievocano il costo della modernità

Nel 1871, quando Roma divenne capitale del neo Regno d’Italia, non era attrezzata per ospitare ministeri, uffici, ambasciate, nuovi quartieri. Fuori dalle mura vaticane, tra chiese, palazzi, grandi residenze con giardini e orti, si presentava con rovine antiche disseminate ovunque, zone abbandonate e disabitate. Più in fretta possibile era dunque necessario costruire gli edifici adeguati al cambio di ruolo politico e tutto avvenne a spese di evidenze archeologiche che intralciavano la costruzione di strade e fabbricati. E del sottosuolo, che conservava tracce integre di antichi insediamenti.

La città divenne un enorme cantiere edilizio e l’attività, anche speculativa, non ebbe sosta. In pochi anni, oltre le sedi ministeriali, furono costruiti, per esempio, la stazione Termini, il traforo sotto il Quirinale, la nuova aula di Montecitorio, la Banca d’Italia, il monumento colossale a Vittorio Emanuele II, oggi Altare della Patria. Come scriveva Ferdinand Gregorovius proprio nel 1871, nei suoi “Diari romani”: «Hanno demolito la Porta Salaria…tutta Roma è in rovina come il papato».

In assenza di una organica legge nazionale di tutela, numerosi ritrovamenti furono smembrati, distrutti, dispersi nel mercato antiquario. La quantità di reperti, nonostante l’emorragia, fu comunque enorme e divisa tra Musei Capitolini e Museo nazionale Romano (alle Terme di Diocleziano), mentre si cominciavano a raccogliere in un “Corpus” le epigrafi venute alla luce e nascevano pubblicazioni periodiche sulle “Notizie degli scavi di Antichità”. Erano i primi passi di una più attenta metodologia di ricerca, che però non riusciva a limitare i danni della febbre edilizia, privilegiando nella salvezza oggetti di lusso e capolavori statuari, tra cui Il Pugile, la Venere Esquilina, l’Ermafrodito. Rodolfo Lanciani, ingegnere e topografo a capo della Commissione archeologica Comunale, ci ha lasciato dettagliate tavole planimetriche con le nuove scoperte; ma per quanto tuonasse contro i privati non pose freno nell’abbattimento di siti unici.

L’Esquilino pagò un prezzo altissimo. Qui si estendevano i Giardini di Mecenate e, a seguire, altri di gran pregio, che facevano parte della Domus Aurea di Nerone. I rivestimenti di alabastro, le sale affrescate, citati dagli scavatori, furono cancellati, mentre le grandi residenze rinascimentali circondate dal verde e da opere d’arte, subirono gli stessi oltraggi, come la bellissima Villa Peretti-Montalto.

Sulle distruzioni avvenute a Roma a cavallo dei due secoli si sofferma Annarosa Mattei in “Sogno notturno a Roma (1871-1921)”, edizioni La Lepre. Un romanzo per l’impianto narrativo, che vede come protagonisti-divulgatori persone e animali (il gatto Gregorio è il “daimon” protettore della città eterna) in dialogo fra loro. Ma diventa un saggio nel resoconto di quanto si era conservato fino all’Ottocento nei quartieri del centro storico. 

Mentre si sconvolgeva il sottosuolo senza riguardo, un archeologo laureato sul campo scavava nel Foro seguendo una metodologia d’avanguardia per l’epoca: Giacomo Boni. A lui, col sottotitolo: “L’alba della modernità”, è dedicata la mostra allestita tra Foro e Palatino (fino al 3 luglio). Su progetto del direttore del Parco archeologico Alfonsina Russo, curatrice con Roberta Alteri e Andrea Paribeni, l’esposizione vuole celebrare di Boni l’attività scientifica, l’assunto dell’archeologia come scienza, l’applicazione del restauro conservativo e quell’attenzione al paesaggio naturale che, fuso con le rovine, ha contribuito al loro fascino.

Nominato nel 1898 direttore degli scavi del Foro, e più tardi anche del Palatino, nel mettere ordine nei lavori precedenti indirizzò le indagini alla ricerca delle origini di Roma. Il suo lavoro fu presto premiato: vicino alla Curia, venne alla luce una platea di pietra nera, identificata con il “Lapis niger” che le fonti letterarie riconducevano a Romolo. Il criterio messo in atto nelle esplorazioni mirate prevedeva l’indagine stratigrafica, cioè l’analisi del terreno nei vari livelli cronologici. Scendendo di quota, ritrovò le tracce dei principali edifici pubblici a partire dall’età regia e, ancora più giù, ecco emergere il Cippo con l’iscrizione in latino arcaico, che risale alla prima metà del VI secolo avanti Cristo, quando regnavano i Tarquini etruschi. Non furono le uniche scoperte. Per quanto riguarda la prima Urbs un’altra indagine, vicino al tempio di Antonio e Faustina, mise in luce un sepolcreto risalente al X-VIII sec. a.C. L’eco, a livello nazionale e internazionale, continuava a essere enorme. Le foto raccolte nel catalogo Electa illustrano diverse fasi dell’attività di scavo, anche con le immagini scattate da un pallone frenato: le prime foto aeree di un sito archeologico.

 

A Boni si deve il primo museo del Foro che, rimasto chiuso per oltre quarant’anni, è finalmente aperto, e raccontato, nel chiostro di Santa Maria Antiqua proprio in occasione della mostra. Da una sala, altra novità, si accede direttamente a una spettacolare cella del tempio di Venere e Roma. Gli accademici storcevano il naso: Boni non aveva specifici diplomi universitari; ma fu insignito da due lauree ad honorem dagli atenei di Oxford e Cambridge, e i rapporti intrecciati con tanti esponenti della cultura di primo Novecento (da Anatole France a Colette, da Gabriele D’annunzio a Sibilla Aleramo) ne consolidavano il prestigio. L’esposizione comprende altri due luoghi significativi: la chiesa bizantina affrescata di Santa Maria Antiqua, che Boni mise in luce demolendo il luogo di culto che l’occupava dal Seicento, e le Uccelliere Farnesiane. Qui aveva fissato la sua casa-studio e oggi sono esposti statue e quadri simbolisti ispirati dall’archeologia (Duilio Cambellotti, fra gli altri). Dietro, nel roseto da lui piantato, si trova la tomba. Vi fu collocata con il benestare di Benedetto Croce, nonostante Boni avesse aderito al fascismo. Era il 1925.

«Dio ce la mandi buona!». Così scriveva l’archeologo Antonio Maria Colini alla notizia che si doveva demolire quanto restava della Velia, propaggine dell’Esquilino. In un anno, per il decennale della Marcia su Roma, il 28 ottobre 1932, si doveva realizzare la via dell’Impero, per congiungere piazza Venezia con il Colosseo. Nel primo progetto il percorso non era rettilineo, ma il Governatore di Roma Boncompagni Ludovisi decise per un rettifilo, che avrebbe favorito le parate militari, sicuro dell’approvazione del Duce. Fu necessario abbattere la collina lunga 200 metri, alta circa 60, col suo terreno vergine; non si tenne conto dei timori, giusti, di Colini: si andò avanti, nella frenesia generale.

È un’altra mostra, più piccola ma preziosa, che racconta con disegni, acquerelli, video, ritrovamenti inediti, la mega operazione: “1932, l’elefante e il colle perduto”, allestita nei Mercati di Traiano, per l’ideazione di Claudio Parisi Presicce, direttore dei Musei Capitolini, che l’ha curata con un team di archeologi della Sovrintendenza comunale (fino all’autunno, catalogo Campisano edizioni). Il titolo prende spunto dai resti di un “elephas antiquus”, con la zanna lunga circa tre metri, ritrovati durante la demolizione e ora esposti dopo il restauro. Insieme a resti di cervidi e ippopotamo, svelavano una zona lacustre risalente a 430-370 mila anni fa; ma la miriade di pezzi di affreschi, marmi, stucchi di varie epoche indicava altro: la frequentazione plurimillenaria della Velia e una grande domus aristocratica di età imperiale romana, con criptoportico, come rivelano i disegni eseguiti prima della distruzione. Tra roccia e terra, come ricorda Parisi Presicce, furono asportati 300mila metri cubi, e 746 famiglie dovettero lasciare l’adiacente quartiere alessandrino. Venne eliminato il grande giardino che sovrastava la cinquecentesca Villa Rivaldi e il terreno circostante, arredi e portali compresi; è rimasto l’edificio a sé stante su un lato della nuova strada, oggi via dei Fori Imperiali. Dove il traffico è limitato, ma continuano le sfilate.