Le dipendenze, gli amori. Per ricostruire la storia della cantante serviva più coraggio

Billie Holiday e l’eroina. Billie Holiday e l’Fbi. Billie Holiday e gli uomini che la sfruttavano, la picchiavano, talvolta perfino la amavano. Ma soprattutto Billie Holiday e “Strange Fruit”, la leggendaria canzone ispirata da uno di quei linciaggi di afroamericani che nell’America tra le due guerre erano ancora così frequenti. Una canzone scritta nel 1937 dall’educatore e attivista ebreo Abel Meeropol col titolo di “Bitter Fruit” ma portata al successo nel ‘39 da Billie Holiday. Con esiti così clamorosi da spingere i federali a usare tutti i mezzi, specie i peggiori, per impedirle di cantarla dal vero. Questa almeno la traccia principale di un film lungo e spesso slegato anche se ricco di notazioni d’ambiente e dettagli eterodossi che in un contesto meno convenzionale avrebbero risuonato con ben altra forza.

 

Tra un flashback e l’altro dunque prende corpo l’intera vita di Billie Holiday (una magnetica Andra Day, la cosa migliore del film insieme a certe eccentriche figure di contorno). La sua dipendenza non solo dalla droga ma da amori che oggi diremmo tossici. Il dolore e la paura che non la abbandonano mai insieme ai ricordi di bambina nata da genitori minorenni, cresciuta in un bordello e violentata a 10 anni. Quel caravanserraglio di amici, agenti, pusher, parrucchieri, che la segue ovunque e le fa da famiglia. Senza dimenticare il bel federale black che le sta alle costole, la corteggia, la tradisce, la fa finire in galera ma alla fine se ne innamora, Jimmy Fletcher (Trevante Rhodes, nome di punta del neodivismo black).

 

Una figura realmente esistita anche se la loro relazione è ipotetica, mentre sono certe le altre a cui il film allude, da Orson Welles, annunciato in camerino, all’allora celebre Tallulah Bankhead (attrice di bellezza perentoria a differenza di quella scelta per incarnarla).

Ne esce un film abbastanza schizoide benché firmato dal Lee Daniels di “Precious”. Svogliato e convenzionale nell’impianto. Aspro e sorprendente in molti dettagli (alcune scene d’amore; il primo “trip” di Fletcher, che solo drogandosi capisce chi è davvero la cantante; la mamma ricca che lo sgrida). Peccato, a mezzo secolo dal dimenticato “La signora del blues” (con Diana Ross), tornare su Billie Holiday era una grande occasione per fare luce su un mondo raccontato ancora poco e male. Ma occorreva ben altra coerenza. E coraggio. 

 

Gli Stati Uniti contro Billie Holiday
di Lee Daniels
Usa, 130’

LEGGI ANCHE

L'E COMMUNITY

Entra nella nostra community Whatsapp

L'edicola

Il rebus della Chiesa - Cosa c'è nel nuovo numero dell'Espresso