Se Joe Bastianich fosse un’azienda, sarebbe una multinazionale. Cantante, musicista, intrattenitore televisivo, imprenditore proprietario di ristoranti negli Stati Uniti, in Italia e in mezzo mondo, esperto di cibo e produttore di vini. E, come se non bastasse, inviato di Le Iene con l’accento americano. Antipatico, burbero, “Restaurant Man” si è fatto conoscere diversi anni fa nel nostro Paese come inflessibile giudice di MasterChef, allargando via via il suo raggio d’azione. Nei panni del musicista, la sua vera passione, in queste settimane sta attraversando la Penisola per il tour di “Good morning Italia”, l’album di esordio insieme alla band napoletana La Terza Classe. Un progetto nato dall’incontro tra Bastianich e il gruppo partenopeo, una miscela sonora che unisce il folk e il bluegrass statunitense con le sonorità mediterranee. Parlando di cadute e risalite, amore e tradimenti, paura e coraggio.
Bastianich, il suo profilo Instagram sembra quello di quattro persone. Come fa a tenere tutto insieme?
«Sì, in effetti è un po’ schizofrenico. Alcune cose le faccio per lavoro, come i ristoranti e la tv. Altre, come la musica, sono una grande passione».
È stato per anni giudice di MasterChef Italia. Le manca quell’esperienza?
«È stata bellissima, continuo a farlo negli Stati Uniti. Per il futuro in Italia non posso sapere, mai dire mai. Quello che manca è il tempo, la volontà c’è».
Lei è proprietario di diversi locali negli Stati Uniti e in giro per il mondo. Cosa pensa dei ristoratori che si lamentano perché non trovano personale?
«Quello della carenza di personale è un problema comune a tutto il mondo. Abbiamo appena aperto due ristoranti, in Messico e a Singapore, con gli stessi problemi. E anche negli Stati Uniti. Con il lockdown è cambiato qualcosa: le persone vedono in maniera diversa il lavoro e i valori della vita. Nel mondo digitale molti riescono a fare tante cose senza avere un lavoro “tradizionale”: il cameriere o il cuoco. Credo che in qualche tempo le cose torneranno normali».
Gli stipendi sono troppo bassi, lamentano in molti.
«È l’economia. Negli Stati Uniti alziamo gli stipendi ogni giorno, è la legge della domanda e dell’offerta. Se vuoi gestire un business devi fare margine, per fare margine devi fare incassi, per fare incassi devi avere dipendenti e li devi pagare. È giusto. Ma gli Stati Uniti sono diversi dall’Italia».
Qual è la molla che la spinge a essere iperattivo?
«Anzitutto, non voglio essere povero. Lo siamo stati e non è figo per niente. Secondo: sento molto la pressione del tempo che passa. Voglio fare tante cose e capisco che il tempo stringe. Sono orientato al risultato, ho aspettative molto alte. Non è facile, bisogna impegnarsi a fondo per ottenere i risultati giusti».
Joe Bastianich & La Terza Classe - foto di Luigi Reccia
Riesce a ritagliare per sé del tempo libero?
«Sì, faccio musica, quest’anno tre mesi di vacanza in tour! E poi pratico yoga tutti i giorni. C’è anzitutto un aspetto fisico: a 53 anni mi devo tenere in forma. E poi c’è la meditazione. Mi cambia la giornata».
A proposito di meditazione, ha suscitato molte polemiche la sua esperienza nella giungla amazzonica, qualche mese fa in Perù, dove ha bevuto l’ayahuasca, un decotto di erbe in grado di produrre effetti allucinogeni, che in molti definiscono droga ma lei definisce una medicina molto potente “che ti dà accesso a parti del cervello normalmente bloccate”. Perché ha condiviso tutto con il pubblico di Le Iene?
«È un viaggio nel nostro cervello, chi ha il coraggio di affrontarlo scopre tante cose, belle e brutte. Non mi frega nulla di cosa pensa la gente di me. È stato un viaggio personale molto forte che ho deciso di condividere in tv».
Lo farebbe di nuovo?
«Certo, sto programmando il prossimo viaggio in Perù. Stavolta resterò più a lungo nella giungla e ripeterò l’esperienza più volte di seguito, per arrivare in fondo a certi aspetti della mia mente che ancora non mi sono chiari».
Quanto a “Good morning Italia”, il suo album di esordio con La Terza Classe, cosa c’entra il bluegrass americano con la musica napoletana?
«Ho conosciuto i ragazzi della Terza classe in occasione di “On the road”, un programma che facevo per Sky. Ho suonato con loro in Italia e poi sono loro venuti a suonare in America, sono veri appassionati di bluegrass. Durante la pandemia ho scritto un sacco di pezzi country, così mi è venuta l’idea di fare un disco e un tour con questa musica. L’album non è strettamente bluegrass ma più pop-country. A Napoli è molto forte la tradizione folk: da questo punto di vista non è così lontano dal bluegrass, la musica autoctona americana che racconta la nostra storia. E poi ci sono alcuni strumenti in comune: il mandolino e la fisarmonica».
“Lay me down”, uno dei brani, descrive il momento di affrontare la morte. Con quale stato d’animo si augura di arrivare a quel giorno?
«È un po’ triste, ma la morte è un tema universale molto presente nella musica. La canzone racconta come un giorno ci confronteremo con le scelte fatte nella vita, ma il tutto viene vissuto con serenità e senso di festa. Ecco, se riuscissi ad arrivare a quell’appuntamento con uno stato d’animo simile sarei un uomo felice».
Lei ama il bluegrass ma anche il rock. Se potesse reincarnarsi in una rockstar chi vorrebbe essere?
«Jimi Hendrix, se parliamo di quelli che non ci sono più. Perché? È il più figo di tutti, afroamericano, ha cambiato la musica per sempre e ha vissuto solo 27 anni. Chissà cosa avrebbe creato se non fosse morto così giovane. Era un genio in tutti i sensi: per quello che ha scritto, come chitarrista e cantante».
Le piacerebbe suonare con una rockstar di oggi?
«Sì, con tanti ma soprattutto con Bruce Springsteen. E forse accadrà».
Cioè?
«Siamo nella stessa agenzia, lui suonerà in Italia il prossimo anno, il bluegrass è nelle corde di Bruce. Chissà, se tutto va bene…Siamo molto ottimisti. Dopo di che posso anche morire!».
In effetti, sul palco con The Boss…
«Neanche con The Boss, ma prima del Boss!».
Lei è nato nel 1968 nel Queens, a New York, da una famiglia di ristoratori emigranti di origini istriane. È vero che i suoi parenti erano musicisti?
«Sì, i miei suonavano tutti, a casa cantavamo e la musica era sempre presente. Mio padre suonava la fisarmonica, così come mio zio che era musicista professionista e i miei cugini. Noi istriani siamo un popolo disperso nel mondo, senza una terra. Il fatto di non avere una patria è abbastanza complicato: siamo italiani, zingari, slavi, chissà cos’altro. Tutto questo si ritrova nella mia musica, in quello che scrivo».
I profughi li ha conosciuti anche in Ucraina, dove è stato qualche mese fa come inviato di Le Iene. Cosa pensa della guerra?
«È una situazione terribile. Conoscere i profughi, vedere le loro difficoltà, è stato molto emozionante, mi ha portato a riflettere sulla storia della mia famiglia. Su questo tema ho scritto una canzone che metterò sul prossimo disco: “War child”, figlio della guerra».
È vero che sta lavorando con la Regione per ospitare dei profughi nelle sue tenute in Friuli Venezia Giulia?
«Sì, si tratta di un progetto un po’ complicato. Ma noi siamo aperti e disponibili».